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Wes Anderson, Roald Dahl e lo squarcio del perturbante

In tutti e quattro i cortometraggi Anderson mette in scena l’irruzione di qualcosa che spazia dal peculiare al sinistro in un contesto familiare ai suoi personaggi, e che anche per un solo momento turba il quotidiano incedere delle loro vite. La minaccia di un evento che potrebbe essere bellissimo o terribile – il dono di poter vedere senza guardare, la facoltà di spiccare il volo, una scommessa impensabile e la possibilità di salvarsi da un morso mortale – incombe sui personaggi tanto quanto incombe su chi li guarda, mettendoli sullo stesso piano.

“Asteroid City” speciale III – La finzione e la realtà (esistenziale)

L’uomo non è un animale razionale come voleva Aristotele, ma un essere mosso da forze inconsce incontrollabili. In questa scena non solo vediamo la chiave di lettura del film, ma anche come Wes Anderson intenda l’animo umano e, allo stesso tempo, come intenda l’arte in generale. Si tratta anche di una rivendicazione estetica secondo la quale non serve che le azioni dei personaggi vengano sempre spiegate. Asteroid City racconta di un essere umano che soffre, incapace di comunicare col prossimo, ma anche di capire se stesso.

“Asteroid City” speciale II – La prigione del ventriloquo

L’Anderson 2.0 degli ultimi anni è un animale diverso. Non più il creatore di personaggi sognanti persi in mondi immaginari, in cui poteva immedesimarsi lo spettatore ugualmente imbevuto di cultura pop degli anni Novanta e Duemila. Più sottilmente, il creatore di universi dumpster del narrativo (come la discarica di L’isola dei cani) dove gli elementi del pop, di Hollywood, dell’emozione cinematografica ci sono tutti, ma non fanno esattamente il loro lavoro.

“Asteroid City” speciale I – Il filo rosso inafferrabile

Nonostante la loro molteplicità e sfaccettatura tutti i personaggi di Asteroid City hanno però un filo rosso che li accomuna: inseguono qualcosa di inafferrabile (sogni, speranze, vie d’uscita), hanno debolezze da vincere (paure, disillusioni, dolori), si trovano davanti a cose incredibili a cui sono costretti a credere (che sia la morte o un alieno che scende sulla terra). Questo continuo inseguire la vita senza riuscire ad afferrarla mai ci ricorda un po’ Willy il Coyote, che non appare ma in fondo abita un po’ questi personaggi, col suo spirito donchisciottesco stupito, ostinato e sognatore.

“The French Dispatch” e l’elogio della digressione

Automaticamente novecentesco, ossessivamente autoreferenziale e eccessivamente formale Wes Anderson lo è praticamente da sempre. E The French Dispatch, suo ultimo lavoro, non si pone certo come taglio netto o massima summa del suo cinema. Ma con questo omaggio – che il regista texano, da anni idealmente trapiantato in Europa, riserva a una vecchia idea di giornalismo, nello specifico al “New Yorker” e a un gruppo di storiche firme alle quali il film è dedicato – Wes Anderson sembra prestarsi a un occhio più consapevole e, in un senso molto lato, finalmente compiuto.

La magia del cinema secondo Wes Anderson e Tilda Swinton

Chi meglio di Wes Anderson e Tilda Swinton potrebbe raccontare la magia del cinema? Celebri per l’unicità ed eccentricità che li caratterizza, i due, da autentici cinefili, hanno guidato alcuni giorni fa il pubblico del British Film Institute attraverso titoli insoliti, partendo dal fiammeggiante universo di Micheal Powell ed Emeric Pressburger. Fondatori della casa di produzione Archers e attivi principalmente tra gli anni ’40 e ’50, Powell e Pressburger realizzarono racconti dominati da toni fantastici e romantici, distaccandosi dal forzato realismo tipico del cinema britannico di quel periodo. Dalla nostra corrispondente a Londra.

“L’isola dei cani” e la filosofia dell’animale

Plutarco, nel trattato Del mangiare carne, aveva riconosciuto le virtù degli animali contrapponendole alla natura viziosa dell’uomo, attaccandone l’antropocentrismo, visione egoistica che priva gli altri esseri viventi della propria soggettività considerandoli incapaci di apprendere e di modificare il proprio comportamento in base all’esperienza. Secondo Democrito, invece, il debito dell’uomo nei confronti del mondo animale è immenso,  dal ragno avrebbe imparato a tessere, dalla rondine l’architettura, dal cigno e dall’usignolo il canto, per non parlare delle abilità chirurgiche degli elefanti che estraggono le armi conficcate nel corpo dei compagni feriti. Nel film di Wes Anderson troviamo tutto questo, l’animale giocattolo, il pet, che la stop motion trasforma in un puppets restituendogli il soffio vitale e la dignità tanto agognata. 

I suoni del Giappone interiore di Wes Anderson  

Dopo Fantastic Mr. Fox, Moonrise Kingdom e Grand Budapest Hotel, Alexandre Desplat torna a collaborare con Wes Anderson per la colonna sonora dell’Isola dei cani. Torna, insomma, a lavorare sotto stretta sorveglianza, poiché, è risaputo, il regista esige un controllo maniacale dei dettagli e pretende che ogni aspetto del film rispecchi e promuova la sua cifra stilistica. Così, nell’Isola dei cani, l’ortogonalità tipica di Anderson, declinata in chiave nipponica, viene tradotta in musica con una rinuncia agli slanci melodici in favore di una verticalità ritmica. Sorprendentemente, il rischio di ripetitività, pur insito nel tematismo limitato, è scongiurato con un ipnotico sottofondo percussivo che gioca sul rinnovamento timbrico, anche grazie al ricorso a frequenti raddoppi, all’interno di un organico già di per sé esteso e stravagante.

“L’isola dei cani” di Wes Anderson tra straniamento e ricerca

Recensiamo in anteprima L’isola dei cani di Wes Anderson, un film perfettamente plasmato secondo l’estetica contemporanea giapponese, un mix fra iperfuturismo e tradizionalismo. Anderson, in equilibrio fra sofisticata estetica compositiva ed istanze sociali, sembra aver trovato la sua vera cifra stilistica attraverso un egregio e puntuale lavoro di ricerca, distante anni luce dalle superficiali operazioni di turismo culturale che hanno caratterizzato in passato molta produzione d’oltreoceano. Dai referenti cinematografici dichiarati come Akira Kurosawa e Hayao Miyazaki, fino ai maestri dell’ukiyoe (letteralmente “immagini del mondo fluttuante”), l’arte tipica della stampa su carta o legno di cui a Katsushika Hokusai è il più celebre esponente.