Della folta filmografia di John M. Stahl, ben sette titoli sono diventati oggetto di remake. Senza dubbio, si tratta di un riconoscimento dell’enorme impatto del lavoro del regista sull’immaginario hollywoodiano: le sue opere, così fertili e ambigue, necessitavano di essere rielaborate, rimasticate, digerite. Ma i numerosi remake hanno costituito anche una maledizione, tanto che sembra impossibile, oggi, parlare della versione di Lo specchio della vita di Stahl senza innescare un paragone costante con il ben più noto rifacimento di Douglas Sirk. Lo stile, la poetica lo sguardo di questi due cineasti non potrebbero essere più differenti: il primo discreto entomologo dei sentimenti umani, il secondo maestro del manierismo a tinte forti (letteralmente, poiché Sirk fa proprio dei toni primari e dei cromatismi sgargianti una cifra espressiva inconfondibile). Ma non si scambi la pacatezza di Stahl per algido cinismo: come i precedenti La donna proibita e Solo una notte, Lo specchio della vita è prima di tutto un melodramma straziante, in cui si consuma per l’ennesima volta una storia di sacrificio e di donne – innamorate (e libere dalle costrizioni del codice Hays) nei primi due film, madri prima di ogni altra cosa nell’ultimo.

D’altronde è proprio il sacrificio femminile il tema costante e il motivo di tanta contraddittorietà dei woman’s film, genere spurio, trasversale e solo retrospettivamente canonizzato, di cui Stahl è indiscusso maestro. Prima ancora che questo, però, Lo specchio della vita, è soprattutto un film sulla razza: su una giovane di colore che sembra bianca – figlia di una coppia interraziale nella sceneggiatura originale, poi opportunamente rimaneggiata a vantaggio della morale bianca e segregazionista – interpretata, a differenza della versione di Sirk, da un’attrice afro-americana. Fredi Washington ebbe poi a dichiarare che, a differenza del suo personaggio, non avrebbe mai voluto fare racial passing: era fiera della sua appartenenza etnica, che rivendicava con orgoglio nonostante le difficoltà, innanzitutto per la sua carriera (troppo nera per interpretare le eroine bianche delle screwball, troppo bianca per il cinema all-black o per rientrare nel typecasting delle domestiche afroamericane, Fredi lavorò poi sporadicamente).

Appare inutile oggi sottoporre a processo le intenzioni di Stahl, o tentare inutilmente di placare le nostre coscienze di spettatori anti-razzisti incasellando una volta per tutte il film sotto le rassicuranti etichette di “conservatore” o “progressista”: Lo specchio della vita sfugge a tale dicotomia, e conferma la sua vibrante attualità con un racconto ambiguo ma ricchissimo, capace di mettere in scena le contraddizioni di una società discriminatoria e la tragedia personale di chi non riesce ad accettarne le conseguenze.