Quello di David Miller non è un nome altisonante nel cinema statunitense, eppure il regista ha saputo giostrarsi con maestria fra differenti generi e forme, ritagliandosi uno spazio consistente nel periodo d’oro della Hollywood classica: gli amanti del noir ricorderanno in particolare So che mi ucciderai (Sudden Fear, 1952), che spicca per la regia di classe e gli interpreti in stato di grazia. Il sontuoso gioiello di Miller, fotografato in un bianco e nero d’antologia e dotato di un rigore formale e narrativo quasi hitchockiano, è un melò/noir a tinte sadiche dove una storia d’amore si trasforma pian piano in un intrigo delittuoso ricco di suspense: un genere molto in voga tra gli anni Quaranta e i Cinquanta, che ha prodotto capolavori come La fiamma del peccato, Vertigine, La signora di Shanghai o i celeberrimi classici di Hitchcock, e che si innesterà anche nel cinema europeo con future opere come I diabolici e Ascensore per il patibolo. Ed è proprio a classici come La fiamma del peccato e Il postino suona sempre due volte che David Miller sembra guardare, ispirandosi liberamente al romanzo Sudden Fear di Edna Sherry.

So che mi ucciderai ha come protagonista Myra Hudson (Joan Crawford), ricca ereditiera di San Francisco e drammaturga di successo a Broadway, che durante un provino per una sua opera teatrale scarta l’attore Lester Blaine (Jack Palance). Tempo dopo, Myra, sul treno per San Francisco, ritrova casualmente lo stesso Lester, e i due si innamorano, finendo per sposarsi. Dopo una splendida luna di miele, Lester incontra però la vecchia fiamma Irene Neves (Gloria Grahame), della quale è ancora innamorato, e che adesso è fidanzata con un avvocato, fratello di un altro legale molto amico della Hudson. Fra i due amanti arde ancora la passione, e quando vengono a sapere che Myra sta per lasciare tutto il patrimonio a una fondazione di suo padre, decidono di ucciderla prima che firmi il testamento, in modo da ereditare l’intero capitale. La moglie, tramite una registrazione, scopre inavvertitamente il tutto e, presa dalla paura, elabora a sua volta un diabolico piano per eliminare i due cospiratori.

L’inizio sembra anticipare un certo cinema di Robert Aldrich, cioè quei drammi ambientati nel mondo dello spettacolo – pensiamo a Il grande coltello o Quando muore una stella – con la messa in scena dell’affascinante ma spietato mondo di Broadway. La prima parte ricalca gli schemi del melò, ma senza mai scadere nel banale, con la narrazione dell’incontro fra i due protagonisti, l’innamoramento, la luna di miele in una splendida villa sul mare, la vita nella loro ricchissima abitazione. Poi, quando entra in scena Gloria Grahame (moglie e musa di un altro gigante del cinema classico americano, Nicholas Ray), So che mi ucciderai si incanala più decisamente – ma senza soluzione di continuità – nei suddetti canoni del noir: Irene è la dark lady, la femme fatale, colei che fa sprofondare Lester (già presumibilmente più attratto dai soldi della moglie che non dall’amore) nella perdizione del delitto – ma bisognerebbe parlare a lungo anche della meravigliosa performance di Palance, col volto granitico e sempre a suo agio nei ruoli da villain. Un meccanismo che David Miller riproporrà similarmente nel suo successivo giallo Merletto di mezzanotte (1960), accrescendo la suspense con accorgimenti precursori del thriller moderno (la voce contraffatta che minaccia, la paranoia della protagonista) e introducendo nella vicenda il meccanismo del whodunit.

In Sudden Fear invece non c’è un colpevole da scoprire, e lo spettatore è messo al corrente ben presto, insieme alla protagonista, del piano ordito dai due amanti. E Miller ce lo fa conoscere con un colpo di genio, cioè l’incisione dei dialoghi di Lester e Irene sul dittafono di Myra, rimasto inavvertitamente acceso. Se il punto di partenza di tale invenzione è la sceneggiatura, è poi merito di una regia particolarmente ispirata se la scena viene resa in modo indimenticabile, con la voce che riecheggia nella stanza e i primi piani sulla Crafword colta in quel terrore improvviso di cui parla il titolo originale. La macchina da presa – pur non disdegnando gli esterni di San Francisco e gli interni quasi gotici della villa – si muove spesso a favore di Joan Crawford: star di Hollywood e vera signora dello schermo in grado di restituire come poche altre attrici le espressioni di amore, angoscia e dolore, è valorizzata dai primi piani e da invenzioni di regia che la ritraggono come una dark lady molto sui generis, in preda a paure e paranoie, e che al contempo accrescono la suspense. Per esempio, i fasci di luce che le attraversano il viso nella penombra mentre è nascosta, ma anche la lunga sequenza in cui si sovrappongono in dissolvenza il suo volto e ciò che lei pensa, il primo piano montato in alternanza alle immaginarie scene di omicidio, la sua immagine allo specchio con la pistola in mano che le fa cedere i nervi.

Perché la seconda parte del film è poi incentrata sul minuzioso piano che la donna mette in atto per eliminare i due complici e salvarsi la vita, in un’originale sfida a tre. Attraverso un’intricatissima rete di sotterfugi e doppi giochi, falsi biglietti e trappole, Myra progetta di uccidere Lester in modo da accusare Irene, facendola così condannare a morte. Non tutto andrà come previsto, e il film è costruito come un lungo climax dove si ha sempre l’impressione che stia per accadere un omicidio (in tal senso hanno buon gioco il volto diabolico di Palance e la colonna sonora imponente): un climax che convoglia nell’apice della suspense durante il lungo finale ricco di colpi di scena, con Myra prima appostata nella casa di Irene, poi inseguita da Lester nei vicoli circostanti, fino a una conclusione disperata come deve essere quella di un noir.