Una sala cinematografica, i primi spettatori ad accorrere si dispongono davanti allo schermo: il desiderio di immersione, il piacere della finzione, la necessità della sua verità. Il film è un classico di Hollywood, il Frankenstein di Whale, ma questi spettatori non sono i giovani turchi della cinefilia parigina, bensì bambini della provincia castigliana negli anni '40.
Una sequenza successiva: carrellata a seguire a seguire una donna adulta, la donna e la macchina da presa si fermano ad attendere l'arrivo di un treno. La donna non si accorge di essere appena entrata in un film dei Lumière. La differenza tra lo sguardo cinefilo e quello adulto sta tutto in questa inquadratura. Uno sguardo che i cinefili condividono con i primi spettatori del cinematografo i quali, a differenza di quanto ancora oggi tramandato, non si spaventarono perché scambiarono l'immagine per la realtà, ma perché scoprirono la potenza del reale che l'immagine dischiude.
Di questa potenza si interroga Lo spirito dell'alveare attraverso lo sguardo infantile di Ana posto in dialettica con quello adulto dei genitori. A differenza della madre infatti vediamo Ana quasi paralizzata dall'arrivo del treno, come se fosse un evento prima di tutto estetico. La scoperta della potenza del reale va di pari passo con la scoperta del mondo stesso.
Guardando il film di Whale Ana sviluppa una simpatia per il mostro dovuta alla comune natura di singolarità informe e amorale che via via scopre, attraverso i conflitti e le tensioni linguistiche, il mondo in cui abita. Al contrario, il tentativo perennemente fallito del padre di spiegare la vita delle api per mezzo del linguaggio scientifico evidenzia lo scacco dello sguardo adulto. L'infanzia smette qui di essere lo spazio racchiuso in cui proiettare idealizzazioni del passato e nostalgie fanciullesche. L'infanzia, come la sala cinematografica, è piuttosto uno spazio metafisico percorso da fantasmi e traumi che sospende la percezione ordinaria.
Se lo Spirito è, come crediamo, un classico del cinema europeo, lo è in quanto rilancia a ogni visione la domanda circa quale tipo di esperienza sia quella cinefila. Sguardo cinefilo e infantile diventano paradigmi per indagare l'esperienza in generale. La posta in gioco infatti non è una regressione a un innocente fanciullino non toccato dai problemi del mondo, bensì la possibilità di esperire ancora in un tempo in cui la dispersione dell'esperienza ha prodotto una sua paradossale povertà.
Denuncia di povertà a cui il cinema europeo (nelle vesti in primis di Renoir e Rossellini) ha risposto con una messa in scena epifanica del reale. Formatosi come critico di estrazione cahierista, il regista Victor Erice trasforma il film in un atto di critica cinematografica. Parafrasando un po' Adorno, verrebbe da dire che è impossibile produrre un Whale dopo Rossellini. Ora il reale può emergere spontaneamente solo da una sospensione e una messa a distanza critica di certo cinema “innocente” e dei suoi codici. Per questo Erice preferisce atmosfere rarefatte, ritmi lenti, un distacco pittorialista dalla rappresentazione.
Attraverso un trauma storico (la guerra civile spagnola) Erice mette in scena un trauma percettivo prodotto dalla nascita del cinematografo. A partire dal fascismo franchista viene messo sotto accusa l'eterno fascismo dell'esperienza adulta. Quel mondo adulto che preferisce spiegare piuttosto che vivere le proprie esperienze, che non prova più meraviglia per l'avvento di un treno. Lo sguardo cinefilo allora rimane l'ultimo baluardo in età adulta di una disposizione infantile all'esperienza.