Nella salmastra aria veneziana arriva, placidamente sulle note della mortifera sinfonia di Mahler, Gustav von Aschenbach. È tornato sul grande schermo, grazie al recente restauro, uno dei migliori film di Luchino Visconti. Quello in cui la sua poetica si è liberata delle catene morali, come aveva iniziato a fare in La caduta degli dei. Dalla trilogia tedesca Visconti si apre verso altre nazionalità e soprattutto si comincia a percepire il suo Io non più solo attraverso figure femminili. E così la ricerca all’interno di se stesso vira verso le figure maschili protagoniste: “era il momento di affrontare tematiche di chiara impronta sessuale”, così scrive Renzo Renzi.

Visconti è discendente di una famiglia aristocratica che ha origine storica alla fine del X secolo. Tutto il suo passato, e quello della famiglia, nelle sue opere cinematografiche, così come in quelle teatrali, ne emerge attraverso costumi, gesti e rituali. In Morte a Venezia è però visibile la sua mimesi nel personaggio, interpretato da Dirk Bogarde, attorniato dalla malinconica presenza dell’Hotel des Bains, facile meta per un giovane Visconti, e dal turismo che dopo le guerre non sarà più lo stesso. Nel modellare i tratti di Gustav Aschenbach - oltre a donargli, nei flashback, un’evidente somiglianza a Gustav Mahler - ne esaspera certe abitudini e lo fa somigliare al suo stesso spirito. Infatti Gustav è un uomo alla continua ricerca del bello e del piacere del bello, che in questo film, trova nel giovane fanciullo polacco Tadzio.

Gustav, l’artista tormentato, cede, ma non vorrebbe, alle sue pulsioni edonistiche ed alle sue immaginazioni carnali. Ciò con cui è realmente in lotta sono le sue aspirazioni estetiche e la vita. Gustav è in vacanza, non vuole avere problemi, e quando, alla vista di Tadzio, viene richiamato alla grande discussione avuta con il suo Doppio, Alfred, è deciso a fuggire. È proprio a quel punto però che l’animo ossessivo dell’artista ha la meglio sull’uomo e il lamento di un uomo a terra è presagio sinfonico di sicura morte. Egli però cede e torna dal suo amato, in quello che è un’immensa storia di sguardi; in cui la mano di Visconti traspare grazie all’uso dello zoom. La perversione di Gustav non può che andare verso lo scandalo e quindi da persona riservata e cortese diviene un artista in conflitto con la società e il suo tempo: come accadrà poi in Ludwig. Gustav quindi, per amore, si avvia alla distruzione di sé e di una perfezione che, nonostante il trucco e la tinta, non potrà mai nemmeno sfiorare: può solo sognare la sua mano nei capelli perfettamente ondulati e biondi del fanciullo.

Dopo Morte a Venezia Luchino Visconti aveva l’idea di realizzare una trasposizione cinematografica della Recherche di Proust. E le tracce di questa idea sono già qui molto evidenti nell’evocazione di una dimensione che fin dal principio, attraverso la musica, porta alla malattia e alla morte: vissuta durante l’ultimo sguardo al suo bello. Una visione ravvicinata che fa percepire lo sforzo di Gustav nel voler raggiungere la bellezza che, in un’immagine che è puro cielo e mare, Tadzio possiede. Mentre, all’opposto, dall’ultima immagine, del corpo esanime dell’artista tormentato, Visconti elimina il cielo, lasciando solo il quadro di una terra arsa.