"Fino a qui tutto bene; il problema non è la caduta, ma l’atterraggio". Attraverso queste parole, mutuate da I magnifici sette, Mathieu Kassowitz ci guida nella giornata di tre giovani disadattati delle banlieues parigine: uno spaccone, uno logorroico e uno più responsabile. L’intreccio apparentemente confusionario si svolge il giorno dopo che un altro ragazzo del quartiere viene ridotto in fin di vita dall’ennesimo pestaggio della polizia, in un clima di odio partigiano fra chi indossa una divisa e chi no, fra gli emarginati dal sistema e i protettori del medesimo.
Tra le macerie spente di recenti incendi spicca Vinz, il più furente dei tre. Ha ritrovato la pistola caduta ad un agente, sente l’urgenza di trasformarla in uno strumento di vendetta e le occasioni per appiccare altri incendi non gli mancheranno in questa lunga giornata. La banlieue sembra costantemente sul punto di esplodere, a un passo dalla guerra civile, ma anche i tranquilli quartieri residenziali del centro parigino nascondono un substrato di violenza distruttiva e psicosi interiorizzate. È un universo prettamente maschile, retto su autorità e gerarchie di potere, mosso da umiliazioni e pallottole.
Quel "fino a qui tutto bene" riecheggia per tutta la durata dell’opera, grazie ai repentini picchi di tensione nati dal nulla che sembrano sempre sul punto di sfociare in tragedia, salvo poi smorzarsi con la stessa noncuranza che li ha generati. Nello splendido finale la tragedia arriva davvero e l’odio esplode proprio quando sembra più prossimo a placarsi. Dopotutto il problema non è mai stato la caduta, ma l’atterraggio. Kassowitz è magistrale nel mantenere alta l’attenzione, facendo degenerare situazioni innocue ma anche sfruttando il potenziale comico dei tre perdigiorno e dei numerosi personaggi grotteschi che punteggiano la loro odissea urbana.
La regia alterna campi lunghissimi e morbide visuali aeree con primissimi piani e totali soffocanti, in cui i personaggi sembrano stiparsi nell’inquadratura, ma non sfocia mai in virtuosismo tecnico fine a sé stesso, generando piuttosto un effetto schietto, talvolta spietato. Complice anche la fotografia in bianco e nero, decisa in post-produzione, L’odio è visivamente un film ruvido, di forti contrasti e contraddizioni destinati a non trovare una sintesi. Da un lato la periferia degradata, ma luminosa e accogliente, dall’altro la Parigi bene, immortalata con ammirazione in centinaia di opere, che diventa qui il tenebroso epicentro dell’ingiustizia.
Poco dopo l’uscita di L’odio, e dei prestigiosi premi che giustamente si aggiudicò, pare che l’allora primo ministro francese ebbe l’infelice idea di organizzare una proiezione per il suo entourage, col risultato che i membri del corpo di polizia presenti voltarono le spalle all’opera. Non stupisce affatto, visto che Kassowitz non si mantiene cautamente super partes. Comincia anzi a scrivere L’odio ispirato dall’omicidio del diciassettenne Makomé M’Bowolé ad opera di un agente, ricordando poi l’analogo caso di Malik Oussekine, evocato nei titoli di testa, e ci tiene a rigirare il coltello nella piaga, a dedicare il suo lungometraggio "alle persone scomparse durante il film".
È allarmante che dopo quasi trent’anni L’odio rimanga un film attualissimo. Casi di cronaca riguardanti la brutalità della polizia si sprecano, George Floyd e Stefano Cucchi ne sono diventati loro malgrado emblemi, e ogni volta ci si avvicina a quell’atterraggio profetizzato da un giovane autore poco più che esordiente. Vale la pena chiedersi: fino a qui tutto bene?