I figli della violenza è un film spiazzante, perché ci mette davanti la verità. Nella storia della letteratura e della cinematografia sono stati innumerevoli i tentativi di raccontare la vita di giovanissimi reietti, dall’Oliver Twist di Dickens alla Paranza dei bambini di Saviano, eppure raramente si incontra un’opera di tale impatto. Buñuel, infatti, si sforza di comprendere i suoi protagonisti, in una società che è fin troppo veloce a condannarli.

I figli della violenza è uscito nel 1950, nel pieno del neorealismo italiano e, nonostante sia innegabilmente possibile individuare delle somiglianze con film come Sotto il sole di Roma di Castellani e come Sciuscià di De Sica (lo stesso De Sica che diresse Miracolo a Milano, film odiatissimo da Buñuel per la sua trasposizione idealistica delle classi più povere), sono ancora più evidenti le sue differenze da quella corrente. Buñuel dirige infatti un film spietato che non si astiene dal mostrare la malignità e la meschinità dei suoi giovani protagonisti. Quest’approccio duro, brusco, fa quasi pensare ai nuovissimi film di cineasti come Garrone, Caligari e i fratelli d’Innocenzo, esponenti della moderna corrente iperrealista.

Tuttavia il film di Buñuel si scopre inaspettatamente romantico, in un modo né sdolcinato né mieloso. Soprattutto nella seconda parte della pellicola compare, infatti, un alone di speranza, di riscatto per la gioventù bruciata e perduta, incarnata dal piccolo Pedro. In un mondo in cui i genitori, incapaci di mostrare loro affetto, abbandonano i loro figli, un ruolo positivo è assunto, in una visione peculiarmente idealista, dallo Stato, che accetta di farsi carico del piccolo Pedro e di rieducarlo, regalandogli tutto quell’affetto di cui è stato ingiustamente privato da chi più glielo doveva.

Alcuni, però, sono troppo perduti per essere salvati, non avendo mai conosciuto un briciolo d’affetto, come il capobanda Jaibo, vero personaggio tragico del film. Così, alla fine, Buñuel non può che risolvere la sua pellicola nel melodramma, un po’ scontato ma efficace per farci comprendere la possibilità di una soluzione, un modo per salvare i dimenticati, prima che, per loro, sia troppo tardi.

I figli della violenza è un film convintamente progressista, quasi utopico, certamente antifascista. Buñuel indica chiaramente la strada giusta per risolvere un problema universale, argomentando le sue convinzioni e confutando le antitesi, come quella del vecchio cieco che, nostalgico dell’epoca del dittatore Porfirio Diaz, è convinto che l’unico modo per risolvere la situazione sia attraverso l’eliminazione di tutti i giovani malfattori. Proprio per questo I figli della violenza è un film spiazzante, perché attualissimo in una società dove non si parla che di baby gang e dove riemerge la tentazione di usare metodi giustizialisti e ingiusti. Tutti dovrebbero vederlo, ragionando e meditando, per scartare alla fine convinzioni efferate e crudeli e per cercare di costruire un mondo più giusto ed equo.