William Blake scriveva: “L'immaginazione non è uno stato mentale: è l'esistenza umana stessa.” Rose Glass, emergente regista britannica, cita le parole e gli inquietanti dipinti del romantico poeta/pittore londinese nel lungometraggio d’esordio Saint Maud (2019). In quel film, come in Love Lies Bleeding, si svelano due universi: uno profondamente intimo e immaginifico, l’altro superficiale e materico.
I personaggi principali sono femminili e si caratterizzano per l’evidente ambiguità, sospesi in un limbo che è nel subconscio ma che è figurativamente rappresentato anche in confini geografici sull’orlo dell’abisso. Il talento della cineasta di Londra si esprime tra vertiginose crepe e in(de)finiti angelici cieli stellati.
Love Lies Bleeding è un titolo emblematico della sensuale corporeità e della sanguinosa (e sulfurea) violenza che intride la saffica relazione tra Lou (una fragile ma determinata Kristen Stewart) e Jackie (una “candida” Katy O'Brian in forma olimpica), ottenebrata dalla mefistofelica presenza di Lou Sr. (uno spietato e patriarcale Ed Harris), che le perseguita senza esclusione di colpi (di scena).
Questo rapporto triangolare riecheggia Satan Watching the Caresses of Adam and Eve, una nota opera di Blake che illustra un episodio tratto da Paradise Lost, epico poema di John Milton. Le effusioni amorose tra Adamo ed Eva suscitano l’iraconda gelosia di Satana, che con spirito onanistico sfiora il serpente per assumerne le infide sembianze.
Il desiderio spalanca le porte della percezione e apre a perigliose strade perdute che palesano paradigmatiche forre laviche (Crater Gym è il nome della palestra gestita da Lou). La passione pervade le membra delle due protagoniste, vampiriche creature in una fiaba crudele di addiction (dipendenza da oppiacei, steroidi, sesso) che, sin dalle prime sequenze, mostra i suoi fondamentali precetti: No Pain No Gain e Only Losers Quit (si legge nei cartelli accanto agli attrezzi ginnici).
Il dolore forgia l’animo e l’aspetto fisico in modo incommensurabile, come attesta il titanico e sorprendente pre-finale alla luce della luna che ha suggestioni mitologiche (sembra di intravedere i diafani lineamenti di Ecate, dea dell’oscurità ed esperta di prodigiosi rimedi/veleni, che invita alla rinascita con la vittoria sul buio della morte).
A sopravvivere è la volontà di potenza (Destiny is a Decision è un chiaro monito in vista sulle mura della palestra), l’ambizione di essere Übermensch, individui ispirati dalle proprie pulsioni, guidati da un infallibile istinto e votati all’autorealizzazione. Il caos (dentro e fuori di sé) genera una stella danzante e la bellezza (ri)sorge dalla sofferenza (Πάϑος) personale e dalla desolazione circostante (Θάνατος) grazie all’Amore (Ἔρως).
L’iconografia delle Sacre Scritture e dell’antica Grecia, del cinema crime e della letteratura inglese si confonde con una collocazione spazio-temporale negli U.S.A. degli edonistici anni ’80 (non casualmente), in cui trionfa la muscolare e tossica visione politica di Reagan mirata a generare mostri e il sogno americano si tinge di cruente venature rosso sangue, esaltate da psichedeliche sonorità elettropop, post punk, tipiche della new wave di quel periodo.
La colta ricerca estetica della Glass, anche se a tratti incompiuta, diventa una scelta spesso audace e senza il senso delle proporzioni ma, al pari di Jackie nel poligono del diabolico Lou Sr., si trova a puntare su bersagli in movimento e, quando fa centro, la sua (settima) arte esplode felicemente in estasi.