A Tulgaa (Balžinnâmyn Amarsaihan) giunge una chiamata inattesa: dal suo villaggio natale lo avvisano che il suo padre adottivo ha una grave malattia e potrebbe morire da un momento all’altro. Così è costretto ad abbandonare la città e il suo lavoro da chef e tornare nelle campagne in cui è cresciuto. In questo altrove affrescato da praterie sconfinate dà l’addio al genitore e decide di rimanere per falciare il campo di grano, a cui avrebbe dovuto dedicarsi il padre, entro la prima luna di Settembre. Durante la permanenza farà la conoscenza di Tüntüülej (Tenüün-Erdene Garamhand), un bambino apparentemente irascibile e scontroso, ma che rivelerà delle grandi fragilità.
L’ultima luna di settembre, diretto dall’esordiente alla regia Balzinnâmyn Amarsaihan, che è anche l’attore protagonista, è un film semplice ed essenziale; un racconto di crescita e maturazione tra i meravigliosi paesaggi delle campagne mongole. La vera protagonista infatti sembra proprio la natura con le sue sterminate praterie che si distendono a perdita d’occhio con pochissime capanne sparse a grande distanza l’una dall’altra, lasciando nello spettatore un senso di pace interiore. I paesaggi calamitano l’attenzione della cinepresa per la loro maestosità sublime.
Non si tratta però semplicemente di un trucco utile ad ammiccare al pubblico, ma permette di calarsi nel contesto quasi idilliaco in cui si muovono i personaggi. Un ambiente che con la sua sola presenza sembra annacquare i contrasti e favorire una tranquillità spirituale che l’oppressione e il grigiore urbano dei palazzi non permetterebbero. Va sottolineato che l’oscurità della città compare solo all’inizio del film, restando però impressa nella mente dello spettatore come contrasto al verde splendente che domina il resto della pellicola.
Su questo sfondo avviene l’incontro tra Tulgaa e il giovane Tüntüülej, convinto di trovare nel primo il padre che non ha mai avuto. I due inizialmente mostrano ostilità l’uno verso l’altro, ma ben presto questa lascerà il posto al rispetto, alla simpatia reciproca e poi all’affetto. La loro relazione scardina un modello di mascolinità autoritaria rappresentato sia dal nonno di Tüntüülej che dal patrigno di Tulgaa mostrando che forse anche i “veri uomini” possono piangere.
In tal senso il film si potrebbe collocare all’interno di una lunga tradizione che parte dal Monello di Chaplin, passa da film come Paper moon di Bogdanovich, fino al recente C’mon C’mon di Mike Mills o anche Un affare di famiglia di Kore’eda: una carrellata di film in cui si compone un quadro familiare originale costruito attorno alla genuinità dell’attaccamento affettivo. Una serenità che, però, è destinata sempre al fallimento dietro il richiamo di una realtà cruda e indifferente che, come quel grigiore della città apparso per pochi minuti all’inizio del film, aleggia sempre alle spalle del verde idilliaco della campagna.
Detto ciò L’ultima luna di settembre cala lo spettatore in un mondo alieno, cadenzato da ritmi compassati, incompatibili con la frenesia urbana. I morbidi movimenti di macchina, che seguono inebriati i paesaggi naturali, e la rilassante dilatazione temporale ci pongono di fronte al sogno di un’esistenza spiritualmente piena che il caos della metropoli rende ormai impossibile. Però si tratta pur sempre di un sogno, uno squarcio nella quotidianità destinato a ricucirsi.
Così Balzinnâmyn Amarsaihan, raccontando la sua Mongolia, mette insieme un’idillio, che pur con una sceneggiatura non impeccabile ha il merito di commuovere e stimolare l’immaginazione dello spettatore alla possibilità di una vita alternativa.