Proiettato in questi giorni al cinema Lumière per la retrospettiva He’s Funny That Way, che omaggia il grande Peter Bogdanovich, L’ultimo spettacolo è ancora oggi considerato uno dei capolavori nostalgici e riflessivi degli anni Settanta. Per questo motivo Cinefilia Ritrovata è andata a scartabellare nelle riviste d’epoca e propone oggi una breve antologia di giudizi…

 

Qui la piccola città (che nel film cambia ancora nome e si chiama Anarene) è colta sull’inizio degli anni cinquanta, un’epoca che sta suscitando negli Stati Uniti una nuova ondata di nostalgia. Peter Bogdanovich ha anticipato questo sentimento con un film in bianco e nero (fotografato da Robert Surtees) che si rifà esattamente ai modelli cinematografici di vent’anni fa e intona l’elegia di un’America forse scomparsa. Mentre si compie l’educazione sentimentale di un gruppo di ragazzi, minacciati dall’avvicinarsi della guerra di Corea, muore ad Anarene l’ultimo simbolo della leva pionieristica (l’attore è Ben Johnson, che Bogdanovich riesuma dai vecchi film di Ford); e non a caso il cinema, di cui il vecchio era proprietario chiude per sempre i battenti con la proiezione di Il fiume rosso di Howard Hawks, che celebra distanziandoli i miti del secolo passato. L’ultimo spettacolo è un film sull’adolescenza di una generazione e sulla senilità di una nazione già simbolo di gioventù. Si direbbe l’opera di un Truffaut passato alla scuola di John Ford.

(Tullio Kezich, Il mille film. Dieci anni al cinema, 1973)

 

L’ultimo spettacolo è un film nostalgico, cioè, etimologicamente, un film dove è considerato in maniera angosciosa il ritorno. Ritorno anzitutto a una certa concezione del cinema, quella di cui sono esempi Minnelli e Hawks, espressamente citati e il genere western, presente qui in alcune situazioni-tipo che non hanno funzione narrativa, ma rimangono a livello di “gag” da repertorio: basti pensare all’anonimo vecchio che, inquadrato dal basso, giganteggia di fronte ai due ragazzi seduti al tavolo, guardandoli con sprezzo: situazione tipica di un “saloon”. Era quello un cinema che aiutava a vivere, poiché sostituiva alla realtà frustrante immagini mitiche e gratificanti. (Laddove “vivere” vuol dire soltanto sopportare).

(Sinibaldo Piro, Cinema Nuovo, n. 223, maggio/giugno 1973)

 

In questa analisi che investe giovani e vecchi, Bogdanovich è implacabile. Nella perfetta ricostruzione, nella fedele riproduzione di una realtà e di una tradizione cinematografica, usa un procedimento narrativo che quanto più si avvicina alla convenzionalità, tanto più la nega, assimilandola e riproponendola immediatamente per quello che è. Attraverso l’assunzione totale di un modello di linguaggio, in realtà compie una critica del significato, una distruzione del precedente senso. L’opera diventa allora non tanto o non solo l’appassionata emulazione del “cinéphile”, ma un atto politico, il cui risultato è la comunicazione di un’ideologia (cinematograficamente) “rivoluzionaria” che prescinde dall’analisi del fondo reazionario di un “contenuto” per emergere dalla demistificazione di uno schema stilistico. […] L’ultimo spettacolo è un film sulla morte fisica dei personaggi, su quella esistenziale di tutta una società e su quella filmica del cinema. È per questo forse che non si vede mai nessuno morire, ma li si ritrova, come Sam e Billy, un’inquadratura dopo, già morti, perché qui il concetto di morte è statico e la vita fasulla era sempre stata morte. Bogdanovich compie un atto di filologia ed un atto d’amore, per riflettere, pietosamente ed impietosamente ad un tempo, sulla morte anche dello spettacolo che procede parallelamente alla vita.

(Vittorio Giacci, Cineforum, n. 126, settembre 1973)

 

L’ultimo spettacolo è un atto d’amore, vale a dire la rivoluzione fatta da uno che sa che bisogna ritornare alla poesia cioè alla verità, alla lotta, alla liberazione. Il cinema ha costruito Bogdanivich come ha costruito Godard, Truffaut, Chabrol, il cinema inventato dai geni dell’immagine pura, da Cukor e Minnelli, da Hawks. L’ultimo spettacolo è quello che chiude la giovinezza di due amici, Timothy Bottoms e Jeff Bridges, con la scena di The Red River in cui i cow boys dietro il grido di John Wayne vanno verso il Missouri. È il sogno, la morte. […] Bogdanovich come aveva scavato nel prodigioso realismo di von Sternberg così trova il cinema/cinematografico dove i pionieri avevano gettato le basi di una nuova vita, di una diversa comunità. Il film si svolge nel 1951. C’è persino una data che apre questo giorno di noia, di tristezza, di pesantezza provinciale: 14 novembre 1951. Le ragazze si muovono come Sandra Dee diretta da Delmer Daves. La barista invece è di Wellman e come le ragazze dei bar di Hawks corre sulla strada del paese assieme agli altri amici, quando i due ragazzi si picchiano per via della bionda Sandra Dee. […] Ben Johnson è il padrone del bar, viene certo da Ford, da Sentieri selvaggi, che è il film più violento, più bello che forse sia mai stato fatto. Ben Johnson ha un volto segnato, ricorda sul fiume i pomeriggi con la madre di Sandra Dee e Bogdanovich alterna i piani medi ai campi lunghi di un fiume grigio come la tristezza, un fiume fotografato da Robert Surtees che per tutto il film ha dato un tono di bianco e nero bruciato dal ricordo.

(Giuseppe Turroni, Filmcritica, n. 229/230, novembre/dicembre 1972)