Al suo debutto mondiale nelle sale, Joker ha già attirato su di sé un numero pressoché equivalente di lodi e polemiche, tutte capaci di polarizzare massivamente l’attenzione del pubblico. Il Leone d’Oro a Venezia, l’accusa di aver realizzato il ritratto simpatetico di un maniaco omicida e persino l’allerta dell’esercito degli Stati Uniti nel timore che il film possa ispirare attacchi terroristici: tutto ciò, nel bene e nel male, contribuisce a comporre un quadro sintomatico della pellicola ancora prima della visione.

Sono i mesi del post-Avengers: Endgame, che ha battuto ogni record di incassi. La continuity targata Marvel Studios è riuscita a contagiare un pubblico vastissimo, conquistando persino l’Academy e trascinando nell’impresa la “nemicamica” Sony. Il sodalizio DC e Warner, d’altro canto, sembra l’unico a non aver goduto pienamente della legittimazione trasversale del cosiddetto cinecomic. In questo scenario, Joker segna un punto di svolta notevole e poco importa se il tempo lo dichiarerà un caso isolato: il film dedicato alla creatura di Bob Kane, Bill Finger e Jerry Robinson rompe il silenzio come una barzelletta o uno scherzo di dubbio gusto – e non poteva giungere con tempismo migliore.

Contro ogni aspettativa, la “strana coppia” costituita da Todd Phillips (Road Trip, Starsky & Hutch, Una notte da leoni) e dallo sceneggiatore Scott Silver (8 Mile, The Fighter) riesce a pescare dal fumetto poche azzeccate caratteristiche del villain, scrivendo una storia del tutto inedita che non si concentra sulla genesi del Joker, ma sulla sua trasfigurazione. Di Batman: The Killing Joke – la graphic novel di Alan Moore che ha assunto i connotati di un vero e proprio testo sacro – resta solo un vago e devoto ricordo: il profilo, tracciato con l’agile complicità di Joaquin Phoenix, ammicca tanto a L’uomo che ride di Victor Hugo quanto al corrispettivo cinematografico diretto da Paul Leni (a tutti gli effetti ispirazione primigenia del personaggio, che venne plasmato sul volto di Conrad Veidt).

Se il Gwynplaine di Hugo risulta affetto da una bizzarra deformità che lo costringe a una smorfia perenne, Arthur Fleck è vittima di una risata rantolante e incontrollata che lo rende inviso e inavvicinabile. Deriso e schiacciato da una società che si dichiara completamente ostile all’integrazione, come rifiuto umano tra i rifiuti che sommergono Gotham City, Arthur sogna la stand-up comedy, rifugiandosi nell’oasi onirica della sua misera esistenza: il talk show di Murray Franklin (interpretato da Robert De Niro, in un dichiarato e minaccioso ribaltamento di Re per una notte).

Joaquin Phoenix danza con i sogni e le delusioni di un personaggio nuovo, slegato da ogni modello pre-esistente. Completamente a proprio agio nella metamorfosi, il suo corpo dinoccolato si contorce e sussulta al ritmo di un ghigno pericolosamente simile a un pianto, che sembra nascere da un luogo recondito e inaccessibile. Phoenix oltrepassa l’archetipo e si fa portavoce di un disagio radicato in profondità nella società dei consumi – ed è questo che spaventa di più. La Gotham del 1981, sudicia, inospitale e costantemente avvolta da luci fioche e sfarfallanti, assomiglia pericolosamente a una metropoli dei giorni nostri, mentre Arthur Fleck assume i connotati sensibili e inquietanti del vicino di casa, del passante, del collega di lavoro, costringendoci a spalancare gli occhi sulle disillusioni che sfiorano le pareti del nostro piccolo mondo blindato.

Come grilletto accarezzato e in attesa di essere premuto, il clown di Phillips stuzzica impietoso le insoddisfazioni e le paranoie americane passate e presenti. Joker riscrive i canoni e i limiti del cinecomic grazie a una caratterizzazione di scorsesiana memoria – cupa, grottesca, intensa – che valica il bisogno di impelagarsi in paragoni, regalando al mondo un film diretto e interpretato con intelligenza e, soprattutto, coraggio: il coraggio di sconfinare in territori ostili con terrorizzante familiarità.