Janis e Ana sono due donne che si incontrano in ospedale quando stanno per partorire. La prima è una fotografa quarantenne che benedice una maternità non programmata, mentre la seconda è una ragazza non ancora maggiorenne, impaurita davanti a un evento che non ha scelto. Le due donne diventeranno amiche, si perderanno, si cercheranno e si ritroveranno facendo i conti con un destino che le ha legate per sempre.

Le due protagoniste appartengono a due generazioni diverse. Janis (per cui Penelope Cruz ha vinto la Coppa Volpi come miglior interpretazione femminile all’ultima Mostra del Cinema di Venezia) è nata negli anni ‘70 mentre Ana (interpretata da Milena Smit) è figlia del nuovo millennio. A Janis è stato donato il nome della Joplin, della cui identità e fama Ana è completamente all’oscuro. Così come la ragazza è all’oscuro della storia franchista che ha lacerato la Spagna. Janis è invece pienamente consapevole dei tempi in cui vive: indossa una maglietta con la scritta We should all be feminists e, grazie alla Legge sulla memoria storica, si fa portavoce di un intero paese per indagare sui lati oscuri della storia dei suoi avi.

I rapporti matriarcali, intesi sia in senso famigliare che amicale, sono da sempre al centro della poetica di Pedro Almodóvar, che spesso - più o meno centralmente - ha toccato anche la figura della madre e il rapporto coi figli (Tutto su mia madre, Volver, Julieta). In Madres paralelas il regista madrileno torna a riflettere sui legami materni facendo però diventare l’atto della nascita, del venire alla luce, non solo il motore narrativo del film ma anche una sorta di percorso maieutico per partorire la propria identità.

“Nella maternità c’è un mistero di origine biologica che solo una donna può raccontare” ha dichiarato Almodóvar alla Stampa. In realtà il suo film indaga ben oltre i dati biologici e si fa riflessione intima, identitaria e infine storica. Il tema della maternità diventa quindi la goccia - che immaginiamo rossa come i tanti oggetti che fanno da contrappunto al film - che si allarga in cerchi concentrici arrivando a toccare via via i legami di sangue, di famiglia, di amicizia, fino a lambire la collettività e la sua storia.

Le vicende delle maternità delle due donne si sviluppano infatti di pari passo con le ricerche di Janis che intende indagare sulla fossa comune del suo paese di origine, dove forse è seppellito il bisnonno, e la fuga di Ana da una famiglia anaffettiva e da una madre (interpretata dall’intensa Aitana Sànchez-Gijon) che ha fatto della sua libertà un guscio di fredda individualità.

Ma Janis - e al suo seguito anche lo spettatore - intuisce da subito la verità sottesa al mistero delle due maternità parallele, così come quella legata alla fossa comune del suo paese. La fotografa - fin dai primi abbracci dati alla figlia e dai primi dubbi che tenta di scacciare - sa già cosa diranno i test genetici, così come sa - dai colloqui coi parenti dei desaparecidos - che cosa troveranno gli archeologi scavando in quella terra.

L’urgenza filmica in questo caso non è infatti né quella storica e sociale, che pure attraversa in modo carsico la pellicola, né quella melodrammatica, supportata dalla trama e dalla intensa partitura musicale di Alberto Iglesias, e nemmeno quella trasgressiva, barocca e pop del primo Almodóvar, di cui troviamo qualche traccia sparsa, come nell’omaggio iniziale a Raffaella Carrà o nella forte immagine della locandina. Da Julieta in poi il tono almodovariano si è fatto sempre più intimo e introspettivo e anche in questo film pare che l’interesse maggiore non sia rivolto tanto alle componenti melò, sociali, di genere o storiche, quanto a quello che Dolore, Gloria e Storia marchiano a fuoco sulle nostre vite, lasciando solchi immateriali ma profondi, come in una sorta di DNA non scritto.

C’è un particolare che il regista inquadra spesso in questo suo Madres paralelas. È lo spioncino di una porta di casa - impreziosito da un elegante arabesco di metallo dorato - che apre a sguardi e tempi diversi della storia. “Solo ora che è morta, l’ho ritrovata” fa dire Almodóvar ad una delle due protagoniste, quasi a ricordarci che il nostro guardare ai misteri profondi, quali la vita o la morte, può essere a volte parziale, altre offuscato - come attraverso un occhio magico - o addirittura fuori tempo massimo, ma necessario a definirci.