Se fosse uscito ai giorni nostri, probabilmente, Magnifica ossessione sarebbe stato preso come una parodia, una presa in giro, dei film così struggentemente ed irriducibilmente romantici come Via col vento o Casablanca. Invece quando uscì nel 1954, tratto da un romanzo di Lloyd Douglas, che il regista Sirk disprezzava ardentemente, l’esagerata melodrammaticità della pellicola non sembrò disturbare o interdire più di tanti, cosa che spinse il regista ed i produttori a riproporre la coppia Rock Hudson/Jane Wyman nel film dell’anno successivo All That Heaven Allows. Il film narra la vicenda di Robert “Bob” Merrick, playboy milionario, egoista e scansafatiche che provoca, involontariamente ed indirettamente, sia la morte del celebre dottore e filantropo Phillips, che la cecità della sua vedova. Spronato dall’amico del dottore defunto Randolph, Bob sceglierà di dedicare tutti i suoi beni e la sua vita a sostenere finanziariamente e psicologicamente la povera signora Phillips.

Sulla stregua di film come La vita è meravigliosa di Frank Capra, anche questo film ci narra sostanzialmente una favola, mantenendone anche il tipico intreccio, formato da una situazione iniziale, seguita da una rottura dell’equilibrio, che dà il via alla “favola” vera e propria, quindi dalle “peripezie dell’eroe”, che si prodiga per ristabilire l’equilibrio perduto, che si otterrà infine solo dopo la spannung, il momento di massima tensione, e che porterà all’inevitabile lieto fine. Se oggi questo intreccio, questa fabula, viene sempre di più stravolto e riannodato, confuso e trasformato in molte opere cinematografiche e non, con l’ovvio obbiettivo di stupire in ogni modo possibile lo spettatore, in questa pellicola è rispettato in modo così fedele ed evidente, senza bisogno di troppe complicazioni di trama, da fare risultare quest’ultima quasi banale.

Ma è proprio qui che si cela la particolarità e l’unicità di questa pellicola e delle altre che ne condividono la struttura, nello stupire lo spettatore, abituato ad un altro tipo di cinema, con la sua pura semplicità, con la sua morale così antica, detta e ridetta, ripetuta così tante volte da essere infine dimenticata. Come un novello Dickens, Sirk ci presenta la parabola di un uomo che da avido, egoista e presuntuoso decide, grazie alla sorte, al caso e forse chissà, anche alla provvidenza, di dedicare la propria vita agli altri, di trasformare la propria avarizia in prodigalità, il proprio egoismo in altruismo e la propria presunzione in carità.

Abituato al pessimismo non solo del cinema della nostra epoca, ma presentissimo anche nella nostra vita quotidiana, impregnata dall’assurda idea cronica di tutto ciò che di brutto potrebbe accaderci da un momento all’altro, di tutto ciò che potrebbe ferirci, mutilarci o ucciderci, questo film è stato per me quasi una boccata di aria fresca, di ottimismo, di speranza. Ma Sirk fa ben capire che tutte queste cose non possono essere ottenute gratuitamente, ma solo attraverso l’impegno individuale, attraverso lo sforzo che ognuno di noi deve fare per dare una soluzione ai problemi che ha causato, facendosi carico e riconoscendo le proprie responsabilità e agendo di conseguenza. Nella sua banalità quindi questo film è complicatissimo, perché invece di lamentarsi dei problemi, senza offrirne soluzione e senza riconoscere chi li ha causati, incoraggia una grande presa di coscienza comune e totale. Invece di affidarsi a un facile pessimismo, incolpando la società, il governo o chissà chi, si affida a un difficile ottimismo, in grado di essere ottenuto solo con grande impegno. E forse in epoche difficili come la nostra, un po’ di sano ottimismo è proprio ciò che serve.