Dopo il buon esordio con Non odiare, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2020, Mauro Mancini torna al cinema, affiancato ancora una volta da Alessandro Gassman, con Mani nude, tratto dall’omonimo romanzo di Paola Barbato. Nell’approfondire la natura e le conseguenze della violenza, il regista restituisce un ritratto crudo e spietato della graduale disumanizzazione vissuta dai protagonisti, incagliandosi però in un’inaspettata seconda parte, che seppur si rivela essere l’elemento più interessante dell’intera operazione, finisce per azzoppare l’andamento del film.

Davide è un giovane ragazzo di famiglia borghese che durante una serata in discoteca viene rapito e messo a bordo di un camion insieme a un feroce combattente intenzionato a ucciderlo. Riuscendo miracolosamente a sopravvivere dimostrerà involontariamente un talento nella lotta a mani nude e finirà in un giro di combattimenti all’ultimo sangue gestito da un misterioso boss del crimine e il suo sottoposto, Minuto, allenatore dei vari combattenti.

Non c’è tempo per esplorare il passato di Davide, né per capire le motivazioni alla base del suo rapimento, tutto viene spacciato come una pura casualità ed ecco che il nostro protagonista si ritrova catapultato all’Inferno (così viene chiamato più volte il luogo in cui risiedono i combattenti) senza che ci sia dato di sapere quali siano i peccati che dovrà espiare (seppure indovinarli sia piuttosto facile).

È evidente però che qualcosa sotto c’è e che ognuno dei ragazzi lì presenti si sia macchiato di qualche crimine, al punto tale da essere considerati ora alla stregua di cani, bestie da macello la cui vita ha il solo valore di intrattenere chi è più ricco di loro, chi si fa testimone della violenza senza però entrare in contatto col sangue.

Quelli che si sporcano le mani, d’altro canto, sembrano essere macchiati a vita, privi di qualsiasi possibilità di redenzione e costretti ad affrontare la propria eterna pena senza alcuna via d’uscita. Non lontano da dove sono rinchiusi, non a caso, è presente una chiesa, se non fosse che neppure il prete sembra esente da colpe ed è invece a sua volta alla ricerca di una “parità”, un’azione che compensi qualunque crimine egli abbia commesso.

Sono peccatori i personaggi di Mani nude, persone perseguitate dall’ombra di loro stessi e condannate a una triste esistenza. Ad aprire il film è infatti una frase di Edward Bunker piuttosto esemplificativa, “non c’è nessun inferno e neanche un paradiso. La vita è qui. Il dolore è qui. La ricompensa è qui”.

Allora Davide lascerà ogni speranza una volta entrato in questo “inferno terreno”, si rassegnerà in fretta al proprio destino e quasi per contrappasso susciterà invece l’empatia del suo carceriere, Minuto, il più duro e crudele di tutti, interpretato da un giustamente mono espressivo Alessandro Gassman.

Il film prende dunque una piega inaspettata e abbandona i combattimenti, il sangue, la sabbia e la saliva (mai spettacolarizzati dalla macchina da presa) per riportare queste anime in pena di nuovo in società. Mancini sembra quindi chiedersi se sia possibile ancora vivere dopo aver commesso atti così brutali, laddove questi sono visti come una condanna eterna, un mutamento spirituale dal quale non si può più tornare indietro.

Ecco allora che se il prevedibile rapporto che si va a instaurare tra Minuto e Davide e, di conseguenza, il loro tentativo di ricominciare rappresenti il vero interrogativo del film rispetto alla semplice rappresentazione di un metaforico inferno sulla Terra, la risposta arriva troppo in fretta, riducendo il tutto all’attesa del compimento tragico. Non c’è speranza per questi personaggi, non c’è via di fuga dalle loro azioni e se il presupposto con cui Minuto accoglie Davide nel tentativo di spronarlo a combattere è che “tutti siamo capaci di uccidere e fare cose terribili”, la conseguenza di queste azioni è sin da subito irrimediabile.

La fuga è una mera illusione, il conflitto interno perde la dimensione fisica e geografica del campo di battaglia solo per trasformarsi in un’eterna agonia intima e mentale. È un ciclo infinito che non può essere spezzato, come il moto circolare di un camion che attende l’arrivo dei prossimi condannati. E non basteranno le letture sofistiche di Minuto o l’idillio amoroso di Davide a riavvicinarli a un’umanità che hanno ormai perduto, rimpiazzata ormai da una brutalità animalesca che potrebbe emergere da un momento all’altro, magari alla vista di un altro cane, uno come loro.

Mani nude è devastante nel presentare la propria idea di una violenza biblica, e persino brillante nel rappresentarla a schermo dividendosi tra la tragica azione dei crudi combattimenti e l’altrettanto tragica sedentarietà di una vita fuori dal buio carcerario ma all’ombra delle proprie colpe. Due segmenti estremamente diversi esteticamente ma sostanzialmente uguali nel rappresentare la caduta dei personaggi.

Proprio per questo i dilemmi e le domande emerse durante la prima parte del film, trovano risposta ben prima del prevedibilissimo finale, negando del tutto l’ambiguità relativa a una possibile redenzione dei personaggi e risultando in una chiusura suggestiva, ma fin troppo anticlimatica.