C’era una volta Taxi Driver. Tornato a Berlino dopo il suo esordio con Wound (2017), John Trengove dialoga con Scorsese cercando di mettere in scena la crisi del superomismo maschilista attraverso la vicenda dell’Uber driver – e Überdriver – Ralphie e della setta del Manodrome.
L’idea nasce dal viaggio del regista sudafricano nella Manosphere, ovvero l’insieme di siti e comunità online che professano ideologie maschiliste e misogine. Partito dal libro Kill all Normies di Angela Nagle, Trengove ha esplorato questo universo inquietante, trasformandolo nel Manodrome e filtrandolo in un film dove il racconto resta su un piano volutamente mitologico.
La storia segue la corsa violenta e disturbante della vita di Ralphie (Jesse Eisenberg) e il suo rapporto complesso con la mascolinità tossica. Dopo il licenziamento Ralphie divide le sue giornate fra le corse come autista di Uber, la palestra e i momenti con la fidanzata Sal (Odessa Young), prossima al parto. Sulle luci sinistre di un albero di Natale si staglia la crisi di un personaggio che sente il dovere di essere un capo famiglia forte, economicamente e fisicamente, maschio come la società gli chiede di essere, ma non riesce a entrare in relazione con la propria fragilità e con la ferita, mai rimarginata, dell’abbandono.
Attraverso una moltiplicazione di figure paterne connotate da un’idea diffusa, e tossica, di mascolinità Trengove racconta il bisogno di ascolto di Ralphie, soffocato da allenamenti devastanti, cibi iperproteici, non detti domestici. Un bisogno che incontra il Manodrome: famiglia fatta di soli padri e figli, setta di uomini che professa un’astinenza dal mondo femminile guidata da ideali misogini e maschilisti.
Famiglia e setta: attraverso questa ambivalenza il regista evidenzia il bisogno di una fragilità incompresa e il rischio, concreto, che su di esso si innestino l’ideologia maschilista e la violenza. Ralphie si abbandona così a Dad Dan, la guida carismatica del Manodrome, interpretata con sobrietà da Adrien Brody. Ma questa non è la risposta e Dad Dan non può risolvere il dissidio interiore di Ralphie, interpretato in modo convincente da Eisenberg nelle esplosioni di rabbia e negli sguardi persi in una ricerca tanto ossessiva quanto vitale.
L’intento dichiarato del regista era quello di evitare un documentario sulla Manosphere. Il suo film riesce a mantenere la narrazione, senza cedere troppo al simbolismo e alla teoria psicologica. Certo non mancano alcune ingenuità. Soprattutto l’eccesso didascalico: nel confronto coi modelli, quando lo specchio di Taxi Driver si moltiplica negli schermi di un centro commerciale. Anche, a volte, nel voler sottolineare l’ovvio: il piccolo Ralphie che compare sotto l’albero. Nel complesso comunque la narrativa del film funziona, come l’idea di rendere con i toni del thriller e dell’horror un problema importante della società contemporanea.
Nell’opera di Trengove non trovano spazio solo riferimenti freudiani, ma anche la tensione religiosa dei riti e delle preghiere del Manodrome. Il regista recupera questi temi a lui cari – già esplorati in Wound – e cerca di proporre un’idea di cinema come mito. Abbondano immagini della mitologia maschilista antica e moderna: i corpi ipertrofici della palestra, i soldi e le armi nello studio di Dad Dan, dove si intravede anche una rappresentazione di Crono che divora i figli. Il quadro ricorda il divorarsi a vicenda delle figure maschili di Manodrome e spinge a chiedersi se la vicenda di Ralphie possa essere portatrice di una nuova mitologia.
Il gigante paterno deve continuare a divorare i figli o può cantare una ninna nanna?