Nel saggio “Il testo globale”, contenuto in Corto Circuito. Il cinema nell'era della convergenza a cura di Michele Fadda, Ruggero Eugeni si addentra nella questione della spazialità a cavallo tra cinema e videogioco. In particolare egli nota come, a livello spaziale, le immagini della contemporaneità cinematografica e videoludica tendano a contaminarsi e al tempo stesso interdefinirsi: configurando di volta in volta ambienti che, sempre meno statuari e “fissi”, rifuggono a qualsiasi tentativo di mappatura. Una logica che Eugeni definisce “reticolare”.

La tendenza topografica degli ambienti immaginali cinematografici si piega alla rappresentazione di un agire, piuttosto che alla solidificazione di una cornice: lo spazio non viene più inquadrato come limite o come “contenitore” ma al suo interno ci si muove di continuo, spesso freneticamente. Esso viene trasceso pur mantenendo la propria centralità: è il caso del recente Madre! di Darren Aronofsky, in cui l'abitazione (fulcro concettuale del film) viene sì inquadrata a più riprese dall'esterno, ma al tempo stesso (dall'interno) diviene un crocevia ineffabile in cui sono la protagonista e il suo spostamento a situarsi insistentemente al centro della scena. Al suo fianco, lo spettatore percorre continuamente delle distanze: incapace di soffermarsi su soglie o geografie e in grado solo di attraversarle.

E gli esempi si moltiplicano senza fatica: dal vorticoso piano-sequenza del Birdman di Iñárritu (contrapposto, dal punto di vista dello spazio, al teatralissimo Nodo alla gola di Hitchcock) alla vertigine trascendente dell'Enter the Void di Noé, passando poi per il più recente Malick e il suo continuo volteggiare, spostarsi, alla sua fluttuazione attraverso luoghi sempre diversi. Tutti esempi che, pur mantenendo al centro un ambiente ben preciso e denso di significato (il teatro, il camerino, le abitazioni, i deserti o i festini) lo rendono irriconoscibile, o meglio fanno sì che rifugga a qualsiasi tentativo topografico: a grandi linee riconosceremmo gli scorci del Saint-James di Broadway in cui si ambienta la maggior parte del film di Iñárritu, ma difficilmente riusciremmo a rappresentarlo in modo logico, a orientarci al suo interno. Qualcosa di simile e con analoghi intenti disorientanti si è visto già dalle carrellate in triciclo che scandagliavano gli interminabili corridoi dell'Overlook Hotel di Shining: anche quello un luogo fondamentale nell'economia del racconto, ma illogico e non mappabile.

La significazione dello spazio dipende dal modo in cui lo si attraversa piuttosto che dalle sue logiche interne: viene resa cioè l'impressione che in assenza del nostro movimento esso non esista affatto.

Da questo punto di vista l'immagine cinematografica e quella videoludica si somigliano e si definiscono a vicenda. L’evidente proliferazione di mappe all’interno degli universi videoludici, tuttavia, ancor prima che valorizzare le nostre azioni in relazione al mondo di gioco, afferma con prepotenza la centralità cognitiva dell'ambiente virtuale. La mappa videoludica assume le sembianze di linea-guida, di resoconto storico e di indirizzo teleologico al movimento dell'utente (che sempre più ne abbisogna).

Non c'è da stupirsi se un “consumatore” di videogiochi si trova spiazzato e confuso in assenza di mappe di riferimento, come del resto non c'è da stupirsi se invece lo spettatore cinematografico si trova sorpreso quando ha a che vedere con topografie esplicite (basti citare il palcoscenico di Dogville di Lars Von Trier o qualche divertissement andersoniano): le due testualità si formano a partire da un rapporto col fruitore radicalmente differente, e ciò nonostante tendono a uno spaesamento comune, dello spettatore quanto del giocatore. Come scrive Eugeni, tutto sta ad accorgersi del fatto che la visualità contemporanea, a partire dai suoi presupposti spaziali, “si sta mondizzando”: sta assumendo cioè i caratteri propri di un mondo, assorbendo il fruitore nei suoi ambienti e, soprattutto, nei suoi non-luoghi.