Non è facile ritrarre un personaggio controverso come Robert Mapplethorpe. Così Ondi Timoner ha scelto una strada libera dal sentimentalismo per il primo biopic sulla vita di questo artista. Una via più dura, a cui solo una ricerca durata quindici anni poteva portarla. Mapplethorpe inizia con una successione di foto che lo ritraggono dal bambino: prestate per la realizzazione del biopic dal fratello Edward. Il film si divide tra la finzione di una realtà emersa da numerose documentazioni e piccoli frammenti ricostruttivi della New York degli anni settanta e ottanta, che riportano Ondi Timoner alle sue radici nel campo del cinema documentario.

Mapplethorpe è suddiviso in base a date significative per la vita e la carriera di Mapplethorpe e per la storia americana. È il 1969 e Robert viene cacciato dal Whitney Museum, perché non ha abbastanza soldi per l’ingresso, e nella piccola televisione della biglietteria è in onda la riproposizione dell’ultimo celebre discorso di Martin Luther King I’ve Been to the Mountaintop. In quei giorni Robert conosce Patti Smith, si innamorano e idealmente si sposano in un campo di fragole in California. Insieme affrontano, per qualche tempo, la vita newyorkese degli artisti dai jeans rotti e consumati e senza soldi in tasca. Robert dipinge e crea collage, di forte intensità, con le foto di altri, ma la vera svolta nella sua vita è quando scatta la sua prima polaroid.

Salvador Dalì descrisse Picasso come il “genio demoniaco” e definì se stesso come “genio angelico”, Mapplethorpe non è nessuno dei due ed è entrambi contemporaneamente. La sua tecnica, così dura e cruda, trova nei corpi scultorei di Michelangelo la sua aspirazione e ispirazione. Ciò che Ondi Timoner non nasconde è l’ambizione, in costante crescita, del giovane Mapplethorpe che, da vero fanatico del culto del bello, non è modesto né verso le sue composizioni, né nei confronti della fiducia che i suoi amici riponevano in lui. Il Mapplethorpe, interpretato da un simbiotico Matt Smith (Doctor Who, The Crown), è uomo profondamente antipatico, pericoloso, ma anche capace di covare amore, nel profondo di sé, per poche persone nella sua breve vita.

Nel 1972 Robert incontra Sam, un collezionista d’arte molto più grande di lui, che oltre a diventare il suo più grande fautore è anche l’amore della sua vita. Nel 1975 riesce ad esporre le sue fotografie per la prima volta, ma la sua arte non è facilmente accolta, così viene realizzato un doppio esordio: in una galleria vengono esposte le foto che risultano meno provocatorie e in un’altra galleria quelle in cui il genio di Mapplethorpe si libera nelle più provocatorie immagini della New York a luci rosse.

In una frenesia ottica fra una seduta e l’altra, passando da modello in modello, il tempo scorre, la sua sessualità cresce e si mostra sempre più forte. Così anche la sua aspirazione ad essere il Michelangelo dei suoi tempi si realizza. Oltre alla scansione temporale data dalle date inserite all’interno del testo filmico, a parlare visivamente, nel sottotesto ottico, degli anni in cui l’artista vive Ondi Timoner sfrutta il medium televisivo. Così se nel 1969 vediamo Martin Luther King, successivamente, nel 1981 alla televisione passa un reportage sul videogioco Pacman ed uno sul mondo del tennis, fino ad arrivare ad un servizio sulla Mapplethorpe mania e sulla mostra che si tenne nel giugno di quell’anno al Whitney Museum.

Ondi Timoner decide poi di chiudere Mapplethorpe con un freeze-frame enfatico sui suoi occhi che, terrorizzati dalla fine, giunta presto a causa dell’AIDS, vedono una proiezione del suo lavoro: il suo unico credo religioso. Come se anche la morte, con la sua debilitazione e desolazione, non riesca a portagli via quella passione sfrenata che caratterizza tutta la sua opera.