Prima di continuare a leggere questa recensione potrebbe esservi d’aiuto, per adattarvi almeno un po’ alle dimensioni del film in oggetto, stendervi a pancia in giù e strisciare fino al divano più vicino per poi avvicinare la faccia a quei pochi centimetri che intercorrono tra la base del mobile e il pavimento. Fatto? Bene, se ora osservate con attenzione ci sono non poche probabilità che scopriate una popolazione di minuterie sfuggite all’ultimo giro di aspirapolvere: palline di carta stagnola, pezzi di pasta ancora secchi, frammenti di salatini, fiammiferi, arachidi e pistacchi mai aperti, tappi, un rocchetto di filo quasi finito, e magari qualche conchiglia.

Ecco, magari credete di aver trovato un mucchietto di inservibili scarti destinati al cestino lì all’angolo della stanza, e invece avete davanti una comunità di inquilini che a tutti gli effetti abitano in casa da prima di voi, e verosimilmente continueranno a starci quando avrete traslocato. Siete proprio sicuri che questo millimetrico insediamento di cose dimenticate non abbia più diritto di voi a rimanere dov’è? Pensateci bene prima di spostare quel divano e imbracciare la scopa.

Impossibile non maturare un simile scrupolo dopo aver visto Marcel the Shell (in originale il titolo continua with Shoes On), il debutto nel lungometraggio animato di Dean Fleischer Camp che, dopo aver scritto la sceneggiatura insieme a Jenny Slate (anche doppiatrice del protagonista) e Nick Paley, ha portato sul grande schermo la loquace conchiglietta già protagonista di tre corti apparsi su YouTube tra il 2010 e il 2014, ben più artigianali e subito virali.

Tra diario domestico delle solitudini pandemiche e favola morale in formato ridotto, il film si finge un documentario sulla convivenza tra il regista, fresco di separazione dalla moglie, e due occhiute conchiglie con le scarpe, il buffo, determinato e canterino Marcel e l’assennata nonna Connie, cui presta la voce Isabella Rossellini, bruscamente separati due anni prima dalla famiglia e dalla “comunità” (è proprio il termine usato da Marcel) di appartenenza, composta da quegli esemplari che chiunque potrebbe incontrare tra la polvere sotto il proprio mobilio, o – suggerisce il film – nel cassetto dei calzini.

La camera, che alterna campi semi totali degli interni e degli esterni della casa a soggettive molto movimentate, segue nella prima parte la quotidianità di Marcel e Connie, in miniatura sì ma fatta delle occupazioni più comuni (la dispensa, l’orto, il bucato, la televisione); e nella seconda contribuisce alla ricerca della comunità perduta prima attraverso il caricamento di video che rendono Marcel una celebrità in rete, poi coinvolgendolo in un seguitissimo programma di attualità della CBS, 60 minutes, non prima di averlo accompagnato in macchina alla scoperta della sterminata periferia di Los Angeles. In fondo, sembra domandare lo sguardo di Marcel affacciato su colline neanche troppo lontane da quelle di Hollywood, il cinema non è innanzitutto questione di scale e prospettive?

Oltre a certi scambi esilaranti ripresi dai corti di partenza, il film ha momenti di sincera poesia quando il punto di vista volutamente invadente della figura umana lascia spazio ai gesti inattesi e alle abitudini silenziose di nonna e nipote. Come di recente si è capito con EO di Skolimowski, nell’invecchiamento di Connie o nei passatempi di Marcel commuove e turba e diverte quel che non è riconducibile all’antropomorfismo da cui dipendono il regista e lo spettatore, bensì quanto, seppur per ipotesi, appartiene allo spirito inorganico delle conchiglie: dunque non tanto la lettura di una poesia di Philip Larkin da parte di Marcel, quanto la sepoltura senza parole di una conchiglia in un vaso pieno solo di terra.

Purtroppo scene tanto semplici eppure intense sono rare, e sul finale ci si rammarica che i dialoghi intorno ai problemi sentimentali di Dean non siano stati affidati piuttosto ai genitori di Marcel e alla comunità di cracker, tamponi e altre cosette che avrebbero meritato di essere i veri comprimari del film. Difatti, se pure in Marcel scenografie da Airbnb, comparse umane e stop-motion dei molluschi convivono armoniosamente soprattutto grazie al lavoro appassionato del comparto d’animazione diretto da Kirsten Lepore, non si può dire altrettanto del tentativo forzato di rappresentare “dal basso” le contraddizioni del mondo contemporaneo (l’invadenza dei social media, la separazione forzata dai propri affetti durante la pandemia, le nevrosi coniugali), peraltro attraverso un montaggio molto generico.

Viene da pensare che Fleischer Camp, memore dell’esperienza indie e concettuale del precedente documentario Fraud, abbia voluto calcare la mano su alcuni aspetti metaforici ma rinunciabili, dimenticandosi ogni tanto di aver creato un personaggio a cui bastano pochi minuti per contagiare il pubblico (forse principalmente quello adulto) col suo entusiasmo e la sua malinconia.

Comunque sia andata con questa sua sortita al cinema – certo, per il critico sarebbe stato intrigante avere dei bambini all’uscita della sala da interpellare a proposito – non possiamo che augurare lunga vita a Marcel, almeno finché non sarà anche lui, come nonna Connie, visitato da una coccinella.