“Io non lo so se questa è ancora ‘na battaglia oppure se ormai è annata così, che avevamo scoperto che se campa pure co ste forme frastagliate, accettando che non ce faranno mai giocà nella squadra di quelli ordinati e pacificati”. È così che Zerocalcare parlava della sua generazione nella serie Strappare lungo i bordi. Non pare per cui strano che sia lo stesso artista a disegnare le intriganti locandine di Margini. Sì, perché gli scapestrati protagonisti del film, ordinati e pacificati, non lo saranno mai.

Esordio scoppiettante alla regia di Niccolò Falsetti, Margini, presentato a Venezia 79 alla Settimana della Critica, è capace di raccontare un disagio generazionale con estrema genuinità e simpatia. Siamo a Grosseto, fine estate 2008. Nella desolazione della provincia ci sono tre amici e la loro band punk hardcore: i Wait For Nothing. Il sogno è quello di fare il salto di qualità, ma Edoardo, Iacopo e Michele (Emanuele Linfatti, Matteo Creatini, Francesco Turbanti) sono costretti a muoversi tra sale ammuffite, galloni di birra, nuvole di nicotina e deprimenti sagre di paese. Un concerto a Bologna con i Defense (famosa band americana) sembra essere la loro grande occasione, ma basta solo una telefonata a fargli sbattere il muso contro la dura realtà. I tre decidono, quindi, di portare “gli americani” a Grosseto, ma ciò scatena una serie di sfortunati eventi che mettono a dura prova anche la loro amicizia.

Con toni da commedia, ma anche da dramma sociale, Falsetti mette in scena una storia sgraziata, anarchica ed emozionante. In fondo, i protagonisti, a cui è impossibile non affezionarsi, rispecchiano l’esistenza di molti. Costretti a vivere ai margini, “a due ore da tutto”, hanno solo i propri sogni come motore delle proprie azioni - perché anche le urla ai microfoni non bastano per essere ascoltati dal mondo dei “grandi”, troppo indaffarati nelle loro faccende e diffidenti verso i punkettoni. Ed è così che dirompe sullo schermo il limite della vita di provincia, dove le possibilità per giovani sognatori sono pari allo zero, non succede nulla neanche “se bruciasse la città”.

Il tempo nella Grosseto anni duemila sembra essersi cristallizzato negli anni ’80, dove le balere impolverate risuonano ancora le note di Rock’n’Roll Robot di Camerini in piste luccicanti degne di Tony Manero. Solo la consapevolezza che “prima o poi, da quel posto, ce ne saremmo andati” riesce a rendere tollerabile la disturbante serenità della provincia che investe i tre amici. Ciascuno in costante bilico tra la realtà e i propri sogni: Edoardo, chitarrista, vive con la madre e lavora nella detestabile balera del patrigno; Iacopo diviso tra l’amore per la musica classica e il punk, alterna le corde del violoncello a quelle del basso e, infine, Michele, batterista, il più disallineato e ribelle della band che, nonostante abbia una famiglia, è un eterno Peter Pan senza lavoro e volontà di crescere.

Ma Falsetti guarda al passato con intimità e nostalgia. Sono gli anni di passaggio dall’analogico al digitale, resi qui perfettamente dalla musica diegetica che fuoriesce da cavi AUX, musicassette, MP3, radio e amplificatori che tuonano le ruvide note punk degli Ultimi, dei Payback fino a quelle dei Kina e molti altri. La bellezza del film risiede però nella comicità intrinseca dei personaggi e non solo. Difatti, essa è costruita non soltanto attraverso battute brillanti (gli attori parlano solo in dialetto toscano), ma altresì da un intelligente uso del montaggio: la prima volta che i Wait For Nothing danno voce ai loro strumenti la macchina da presa resta loro addosso, tuttavia basta solo uno stacco a mostrare la scoraggiante e semi-deserta festa di paese dove si stanno esibendo.

Margini è imperfetto come i suoi protagonisti, ma è soprattutto fresco e liberatorio. Lo spettatore è catapultato nella vita grossetana a tal punto che, a fine film, i luoghi, i volti suonano familiari. È un film autobiografico per Falsetti e Turbanti (co-sceneggiatore), che guardano con amore al passato, al futuro incerto, alla classe media, ai disagi sociali e lavorativi. Ma come direbbe Accorsi in Radiofreccia “Credo che per credere, certi momenti, ti serva molta energia” e, a volte, tanto basta per mettere in subbuglio un’intera città.