Venezia, Rio, Roma, Parigi, New York. E poi St. Moritz, la Sardegna, le spiagge della Laguna. Seguire i racconti di Marina Cicogna significa iniziare un lungo viaggio nel nostro paese e intorno al mondo, al seguito di una donna che è stata la figlia prediletta di una nobile famiglia e dell’alta borghesia, la quintessenza del jet-set e della mondanità. Ma anche una figura unica e atipica, che con la sua determinazione ha reso possibile un’incredibile stagione del nostro cinema, quella a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, “che ancora credeva molto nel suo messaggio, in quello che aveva da dire”, come dice Frédéric Mitterrand nel documentario Marina Cicogna, la vita e tutto il resto, diretto da Andrea Bettinetti e presentato alla Festa del cinema di Roma.
Il legame della sua famiglia con il cinema viene da lontano, anche se nel racconto dalla diretta interessata sembra essere stata per i suoi antenati una frequentazione del tutto fortuita: la fondazione della Mostra del Cinema di Venezia da parte del nonno Giovanni Volpi di Misurata (governatore della Tripolitania e capo di Confindustria durante il Ventennio)? Un modo per canalizzare la presenza delle tante star già presenti al Lido, per riempire gli alberghi e massimizzare gli introiti. Il padre Cesare Cicogna Mozzoni coinvolto nella produzione di Ladri di biciclette? “Un caso”. L’acquisizione da parte della madre e della zia della società di distribuzione Euro International Films? “Solo un investimento come tanti, avrebbe potuto essere lo yogurt”.
Ma per lei? Per lei no, il cinema era un'altra cosa, una strada già tracciata fin da quando, ragazzina, incontrò David O. Selznick. Senza cadere nell’agiografia, sono i fatti a parlare: nei soli cinque anni di collaborazione con la Euro cambierà la storia del nostro cinema d’autore. Titoli e nomi da capogiro: Medea e Teorema di Pasolini (“l’unico che mi mettesse inquietudine. Lo convinsi io a chiamare Terence Stamp e non uno dei suoi ragazzi pasoliniani”), Metti una sera a cena di Patroni Griffi (“sempre in ritardo, una volta lo presi per il collo e lo spinsi nell’ascensore”), I cannibali della Cavani, Mimì Metallurgico della Wertmüller, C’era una volta il west di Leone, Uomini contro di Rosi.
L’obiettivo? Dare una possibilità ad autori già riconosciuti per le loro capacità ma che al cinema non avevano ancor avuto la grande chance, o faticavano a trovare finanziamenti. Il culmine di questo percorso sarà la collaborazione con Petri e Volontè, con La classe operaia va in paradiso e l’Oscar per il miglior film straniero a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (“Ma quella sera non andò nessuno, Elio e Gian Maria non potevano perché di sinistra, Florinda era su un set, e io avevo paura dell’aereo”).
C’è spesso un autoritario snobbismo di altri tempi nelle sue parole, che però non suona mai accondiscendente, e soprattutto mai decadente. Anche quando mostra le foto (molte fatte da lei, fotografa apprezzata fin dagli studi newyorkesi degli anni ‘50) di una vita tra divi e grandi autori: dai Visconti (Luchino ed Eriprando) a Helmut Berger, da Audrey Hepburn a Liz Taylor e Richard Burton. Nessun rimpianto o nostalgia, neanche quando rievoca i fasti di un famiglia importante quanto complicata.
Più interessante di quello che dice è spesso quello che non dice, quello su cui è meno enfatica e più asciutta e sferzante: il suicidio del fratello Bino, con cui divise parte dell’esperienza di produzione, il rapporto con un madre fredda e con un padre difficile e lontano, il brusco abbandono del lavoro di produttrice.
Persino la lunga storia con Florinda Bolkan e la sua omosessualità vissuta senza mai nascondersi viene liquidata in fretta come “una scelta naturale” e niente di più. “Il passato è un terra straniera” come scrive Hartley in Messaggero d’amore e lei, dall’alto dei sui ottantasette anni e di una salute non proprio di ferro, continua a guardare avanti. Questo vale per tutto, tranne che per il cinema, quello che ha fatto e in cui ha molto creduto, è che il suo più grande legame affettivo e la sua più grande eredità: “la famiglia capita, il cinema è una scelta”.