Luana e Fatima sono poco più che adolescenti e vivono in un hogar, una casa famiglia religiosa di Buenos Aires in cui le mamme che si trovano in situazione di difficoltà possono contare nell’accoglienza e nel sostentamento della comunità ecclesiastica. Suor Paola è una giovane novizia di origine italiana, giunta da poco per prendere i voti. Le vite, gli sguardi e il vissuto interiore delle tre donne si intrecciano per breve tempo dando luogo a delicati cortocircuiti emotivi e scolpendo un ritratto inedito della maternità, fatto di chiaroscuri e di non detti.

Unico film italiano presentato in concorso al festival di Locarno nel 2019, finalmente in sala, è il primo lungometraggio di finzione della documentarista bolzanese (classe 1975) Maura Delpero. Una formazione in drammaturgia a Buenos Aires, dopo gli studi di cinema a Bologna e all'Università Paris IV La Sorbona, Delpero ha scelto di fare il grande salto (dalla realtà di osservazione alla finzione) con un soggetto liberamente ispirato alla sua esperienza di lavoro di quattro anni in un hogar argentino. “Non mi sono fermata sulla soglia a spiare dai corridoi, sono entrata nelle loro stanze, le ho ascoltate e osservate, ho condiviso le loro inquietudini, ci siamo conosciute. […] Da questa posizione interna, personale ed emotiva ho iniziato a scrivere un film sulla loro singolare storia di giovani donne. Quando mi sono avvicinata di più al mondo delle religiose che le seguono, ho sentito che stavo vivendo un’esperienza complessa e unica: la maternità adolescente non era l’unico paradosso con cui mi stavo confrontando. È stata l’immagine epifanica di una giovane suora che cullava uno dei loro figli che ha messo in moto il film: in quel momento ho realizzato tutta la potenza del cortocircuito emotivo di un mondo femminile chiuso, paradossale e affascinante in cui la maternità precoce delle ragazze convive con quella assente delle religiose”.

Maternal è insomma un film sull’infanzia e sull’amore. Sulla necessità viscerale che l’una non debba fare a meno dell’altro. E viceversa. Perché il tema circolare che percorre il film in tutto il suo sviluppo narrativo e iconografico è quello della maternità: con una scrittura sobria e suggestiva Delpero dà vita ad un affresco palpitante di quest’ultima, declinata nelle sue opposte sfaccettature. La maternità che discende da violenza o non amore e può quindi trasformarsi in un’opprimente condanna per chi non ha la capacità emotiva di accoglierla; la maternità negata o rinunciata che implode nell’urgenza di una sua qualsivoglia espressione, benché surrogata. La maternità abbandonata, che delega ai bambini la responsabilità di guarire ferite più grandi di loro per ricevere, una volta sanate, quell’amore che dovrebbe spettargli di diritto. Infine il modello di maternità (e di famiglia) per antonomasia, quella cristiana, il sacrificio della vergine disponibile, emotivamente, moralmente, fisicamente, a colmare vuoti altrui.

Tutto questo espresso con una cifra stilistica di incredibile astrazione, o meglio sottrazione, capace di tenersi in un sorprendente equilibrio, costantemente ad un passo prima del melodramma. In uno scacco matto ripetuto alle attese dello spettatore che, intriso di reminiscenze di altre pellicole sul tema “scottante” della maternità in convento (Agnus Dei di Anne Fontaine, 2016, o la cupa Magdalene di Peter Mullan, 2002), si aspetterebbe di assistere ad atroci ingiustizie perpetrate dalle ecclesiastiche in nome di Dio, proprio come avveniva nel convento irlandese sotto la supervisione di spietate aguzzine religiose, o in quello polacco del 1945. Ma le suore di quei film erano suore nere, cupe di animo e di intenzioni, atrocemente divorate da un sentimento punitivo e di rivalsa, che non attraversa nemmeno per un fotogramma le suore bianche di Maternal. Qui si dispiegano le forze del bene per recuperare alla vita ragazze perdute, con senso di accoglienza e di giustizia sociale.

Anche questa restituzione positiva e umanizzata dell’ordine delle religiose è senza dubbio un merito di Delpero, che ci ha sorpresi e ci ha dato speranza nel genere umano. Se non proprio in Dio, ma per quello c’è sempre tempo di cambiare idea.