Matti da slegare, la versione ridotta del progetto collettivo di Agosti, Bellocchio, Petraglia e Rulli, Nessuno o tutti, in cui i pazienti dei manicomi si raccontano e avanzano anche proposte di riforma di quel sistema che la cosiddetta Legge Basaglia (1978) dichiarerà da superare, esce nel 1975, generando ampi dibattiti documentati nell’appendice del volume della sceneggiatura desunta dal girato pubblicato da Einaudi. Nello stesso anno, Michel Foucault tiene al Collège de France il suo corso di “Storia del sistema del pensiero” su “Gli anormali”, analizzando la colonizzazione dei discorsi giuridico e psichiatrico da parte del “potere di normalizzazione” che “ha esteso la sua sovranità nella nostra società”.
Matti da slegare è, quindi, parte di un contesto storico-culturale e geografico ben preciso, legato certamente al superamento di un modello di psichiatria repressivo. Tuttavia, questo modello diventa indice di una repressione ben più vasta perpetrata dal regime capitalista. Il film mette più volte in evidenza questo duplice, comune sfruttamento di “matti” e proletari da parte del capitale fin dall’inquadratura iniziale, “primo piano di un ragazzo handicappato in fabbrica”, seguita da “foto di mongoloidi che lavorano in istituti privati”.
Il commento che segue è inequivocabile negli istituti “per … cosiddetti subnormali … migliaia di ragazzi lavorano e producono per padroni ombra che realizzano profitti smisurati”. Rifiutati dalle scuole e confinati in istituti dove socialità e cure sono negate, i “matti da slegare” del film trovano un ambiente accogliente nella fabbrica o nei primi esperimenti di case famiglia, i cui iniziatori hanno provato in prima persona l’esclusione sociale.
Focalizzandosi, in particolare, sui tentativi di riforma iniziati nella provincia di Parma, istituzione che, insieme alla Regione Emilia-Romagna, contribuì a finanziare il film, Matti da slegare inizia facendo parlare Paolo, alunno delle medie lucidissimo, che non riesce a star fermo in classe per cinque ore di fila, mentre i suoi compagni ci riescono: “Sono fuori dal normale”, dice Paolo. Viene da chiedersi, oggi, se stia pensando a lui o ai suoi compagni.
Il film continua con Angelo e Marco, due giovani adulti, che hanno avuto un’esposizione più lunga e continuativa alle violenze del manicomio e ne portano le ferite. Nell’ultima macro-sequenza, la macchina da presa entra nella Reggia/manicomio di Colorno, fotografando il momento di transizione verso la chiusura. Qui, con un ulteriore salto generazionale, siamo guidati da Martinelli, un ex partigiano finito nell’ospedale psichiatrico, che ci spiega i nuovi spazi che si stanno aprendo per una diversa gestione dei pazienti e della possibilità di uscire da quella che è a tutti gli effetti una prigione.
Certamente, Matti da slegare è un documento storico che parla di una determinata epoca e di un esperimento cinematografico che abbraccia contenuto e formula produttiva. Questo non significa, tuttavia, che questo carattere di testimonianza storica ne esaurisca il valore. A guidare i quattro autori, come dichiarato nella nota introduttiva, è la ferma convinzione di far parlare i pazienti senza “ripulire” i loro discorsi e normalizzare la “‘diversità’ del parlato proletario”. Non c’è, quindi, il tentativo di un approccio asettico e che rivendica oggettività, tanto che le interviste con i “tecnici” e con i rappresentanti delle istituzioni sono tenuti al minimo indispensabile, ma l’affermazione del film come mezzo per intervenire sulla realtà e cambiarla.
Quello che potrebbe essere percepito come un linguaggio ormai fuori moda, eccessivamente ideologico, o quelle che potremmo pensare essere immagini che ritraggono una realtà sociale ormai superata, ci parlano, invece, più di quanto non vogliamo della società di oggi, in cui c’è la tentazione di medicalizzare ogni diversità percepita, si rimpiangono scuole speciali, classi separate, la perdita di competitività e dello spirito di sacrificio tra i lavoratori.