“Sesso di fronte alla cinepresa” ripete una voce fuori campo intenta a ribadire quella che sembra una chiara dichiarazione d’intenti. Due uomini cercano di trascinare a loro una terza persona, fratello di uno dei due, per un atto sessuale che alla fine dei conti non si concretizza in immagini. Poi il metafilm, che diventa pellicola proiettata su schermo con spettatori che si indignano e altri che si incuriosiscono. Ancora, il documentario, la storia di Peter e Julius Orlovsky (poeta e compagno di Allen Ginsberg, insieme al fratello), che diventa fiction (o auto-fiction) con Christopher Walker (nei panni di un regista, doppiato dallo stesso Robert Frank) il quale indica a Joseph Chaikin (nei panni di un attore) come interpretare il Julius Orlovsky del documentario e ancora ramificazioni di un film dalle infinite direzioni, sguardi, unità… infinite identità.
Restaurato dal MoMA, insieme al regista, Laura Israel e The Pace Gallery, all’interno di un progetto di restauro dedicato alla maggior parte delle sue opere cinematografiche, Me and My Brother, primo lungometraggio diretto da Robert Frank, come tautologicamente indica il titolo, è in primis la storia di due fratelli. Peter Orlovsky (Me) e Julius Orlovsky (My Brother) si sono trovati a vivere forzatamente insieme quando Julius è uscito dall’ospedale psichiatrico, dove era ricoverato per schizofrenia, affetto da mutismo catatonico e diventando così un satellite che gira attorno al fratello, in certi momenti come un peso di troppo, in altri come chiave inconsapevole del loro percorso di emancipazione artistica.
Per gran parte del film, Robert Frank restituisce testimonianze e filmati della bohéme newyorkese degli anni Cinquanta e Sessanta, viaggi, poesie, riflessioni e diagnosi mediche. Il duo, che poi è un trio con Allen Ginsberg, si fa binomio bipolare di visioni sul mondo che, per quanto opposte, si incontrano in un incredibile numero di elementi in comune. Due allontanamenti, consapevoli e non, dalla normalità e da pre-codificati modelli sociali. Julius guarda le cose in modo particolare “lancia un’occhiata e ci gira attorno”, dice Robert Frank, e per quanto possa sembrare impossibile, il suo punto di vista traspare come il più puro ed efficacie degli allontanamenti.
Il film arriva nella carriera del fotografo-regista dopo gli inizi nella fotografia coronati con il lavoro magistrale di fine anni Cinquanta Gli americani, libro fotografico (con testi di Jack Kerouac) dove l’autore esprimeva il suo elaborato sguardo informale sull’America come un reportage sperimentale, una serie di opere istintive, sommarie, ma dallo spirito diretto e trasparente. Il suo dedicarsi successivamente al cinema coincide con la nascita del New American Cinema (sotto molti punti di vista, figlio della Beat Generation), tanto che il suo primo corto, Pull My Daisy, uscito nel 1959, è considerato tra i padri del movimento. Il passato nella fotografia si evolve e coincide alla perfezione con il fermento a cui i film-makers della New York degli anni Sessanta, capitanati da Jonas Mekas, stavano dando vita. Sulle pagine di Film Culture nasceva una visione di rifiuto di un’arte standardizzata, di spinta a sperimentare, successiva agli alleggerimenti degli strumenti cinematografici (si parlava di “cinema verità” o “cinema diretto”), a favore di un cinema più spontaneo.
Me and My Brother è, infatti, cinema d’istinto, dove ogni elemento può essere percepito come autonomo e indipendente, le inquadrature sono spezzate, tutto è tagliato o nascosto. Un film che guarda da un lato e interviene dall’altro. Osserva i fatti nel documentario e li affronta nella fiction. Sguardo e terapia d’urto. Un film sull’espressione, cinematografica e non. Sulla totale espressività libera che c’è nel non esprimersi di Julius, tanto quanto nel tentativo di dargli stimoli. Reinterpretare per tornare a vedere attraverso punti di vista differenti.