Daniel è un adolescente, vive con la nonna. Dopo un anno di scuola superiore, deve andare a vivere con la madre nel sud della Francia. La madre è una sarta, abita in un minuscolo appartamento con José, il suo compagno. Daniel vorrebbe continuare a frequentare la scuola, ma la madre non può permetterselo. Quindi, lo manda a lavorare come apprendista presso un meccanico di ciclomotori. Daniel trascorre il tempo in officina, dove impara di tutto sulle ragazze degli altri giovani del posto. Quando l’anno successivo torna a trovare la nonna, Daniel, inevitabilmente, risulterà molto più cresciuto dei suoi amici d’infanzia.

Distribuito per la prima volta, a quasi cinquant’anni di distanza dalla sua uscita, arriva nelle sale italiane il film più misterioso, non meno affascinante e degno di considerazione, di Jean Eustache, Mes petites amoureuses. Inserito nella sezione Venezia Classici, durante la scorsa edizione della Mostra del Cinema, il titolo della pellicola, in passato quasi completamente ignorata sia da pubblico che da critica, è tratto da una poesia di Arthur Rimbaud. Tuttavia, a differenza del precedente La Maman et la Putain (1973), detestato, nonostante il Grand Prix Speciale della Giuria vinto a Cannes, dalla Presidente di giuria Ingrid Bergman, non è un film di parole.

Si potrebbe citare, in tal senso, un breve estratto di dialogo. Qui, il protagonista, alter ego di Eustache, il quale qualche anno prima aveva intervistato la nonna Odette in Numéro Zéro (1971), figura fondamentale in adolescenza alla cui memoria è dedicato Mes petites amoureuses, corteggia una coetanea appena incontrata, Françoise. Sorpresa, velatamente indifesa di fronte alla stringatezza di Daniel, a suo agio quand’è possibile limitarsi a osservare la vita davanti a sé, fragile quando occorre rendere la conversazione accattivante, gli ricorda: “È buona abitudine che sia l’uomo a parlare”. “Forse, è una cattiva abitudine”, risponde il ragazzo, senza guardarla negli occhi.

Piuttosto, Mes petites amoureuses è un’opera che vive di palpiti, istanti, alla ricerca costante d’una verità in grado di raccontare con lucidità e nostalgia allo stesso tempo l’universo adolescenziale. In apparenza, talmente lontano dal torrente inarrestabile di chiacchiere e relazioni parallele che aveva contraddistinto il suo più grande successo commerciale, capace di catturare il tramonto della nouvelle vague, da non destare interesse e risultare convenzionale. In realtà, Eustache, ugualmente impegnato in una personale Recherche come Daniel, narratore fuori campo delle vicende descritte, tradito da una leggera inquietudine nella voce, come se fosse seduto in sala a rivedersi sullo schermo, rimase fedele alla sua poetica.

Eustache, inaugurando un discorso che avrebbe proseguito e ulteriormente radicalizzato col successivo Une Sale Histoire (1977), collocandosi tra il rigore di Robert Bresson e l’inadattabilità esistenziale proposta in L’Enfance Nue di Maurice Pialat, dispiega la sua “verità” intrecciando sguardo e corpo. Daniel, in assenza di una madre affettuosa (Eustache affidò tale ruolo a Ingrid Caven, dopo averla vista recitare in La Paloma di Daniel Schmid, servendosi dell’intermediazione telefonica di Odette), abbandona gradualmente l’innocenza vissuta nella natia Pessac per meditare sul suo posto nel mondo.

Per meditare sul sesso, mitigato dal termine amore, relegato ai margini dalla morale, come lui stesso dalla società. Sospeso tra fantasia e realtà, ozio e lavoro, coetanei e adulti, eccitazione e tedio, vedere e non essere visto, in Daniel sia la conoscenza che la maturazione giungono attraverso la scoperta del proprio corpo. Inizialmente, osserviamo Daniel, ancora legato alle radici d’infanzia, accompagnato dalla nonna, assistere a uno spettacolo circense.

In questa sequenza, intensa e ineffabile allo stesso tempo, lo sguardo si sospende ininterrottamente sul numero di un acrobata/mangiafuoco, come se nel momento di girare dietro la mano del regista si nascondesse la volontà di aprire un varco nel presente. Il risultato è il ritrovamento di un tempo già stato, cogliere un istante di verità non sembra essere mai stato così facile. Difatti, l’effetto sortito da un’operazione simile si traduce nella paura degli spettatori – sia quelli seduti su semplici assi di legno, all’interno del tendone, sia quelli seduti in poltrona davanti allo schermo – che un artista davvero rischi la vita per intrattenerli. In seguito, Jean/Daniel, navigando lungo tutti i silenzi e gli orizzonti della pellicola, scoprirà un’altra verità. Oltre alla nudità del proprio corpo, accoppiata all’imbarazzo creato dall’esigenza di dover gestire impulsi e desideri, gli si rivelerà, salvandolo dal senso di marginalità e solitudine, la nudità del cinema, la nudità, o precarietà, della vita.

Dietro l’omaggio a Pandora (1951), durante una cui proiezione la sala si trasforma nell’occasione di darsi un bacio proibito, il luogo in cui incontrarsi senza concordarlo, sfiorarsi audacemente, abbandonarsi con la stessa sfrontatezza, Eustache ci porta in un altro territorio. Dietro l’abbraccio finale, un’immagine consapevole e adulta, dietro la sobrietà dello stile, si cela un doloroso senso di perdita, la volontà di trattenere il tempo. La sua è una confessione, e Mes petites amoureuses una lettera d’addio, malinconicamente erotica, a un’irraggiungibile illusione d’innocenza e felicità. Daniel, nell’ultima scena, scompare nel verde. Non tanto per rifugiarsi all’ombra di fanciulle in fiore come Proust, quanto per ricercare, ancora una volta, l’autenticità di una vita in grado di fare a meno di riti o travestimenti. L’unica alternativa che potesse proteggere Jean Eustache, nella realtà, dal mondo/prigione che ne determinò la fine.

Mes petites amoureuses è distribuito da I Wonder Pictures. Gran parte della filmografia di Jean Eustache è attualmente disponibile sulla piattaforma IWONDERFULL.