Una volta ho incontrato una leggenda. Si potrebbe cominciare così, parafrasando il titolo italiano di un grande film di Jonathan Demme (scusandomi sin da ora per l’utilizzo della prima persona, che però mi sembra necessaria date le circostanze di questo racconto). Se lì si ipotizzava l’incontro tra l’anonimo protagonista e Howard Hughes, il mitologico aviator esiliatosi dalla vita pubblica, qui si racconta un incontro che in realtà vero incontro non è. (Se perlomeno sul concetto di incontro la pensiamo come Guccini, “qualcosa che non resta/ frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno”). Non lo chiamerei così, ecco. Direi più una visione.

Capita spesso – almeno a me – che quando passeggio negli spazi di una mostra e mi ritrovo di fronte a un capolavoro conclamato resti un po’ distante, come se avessi già vissuto l’esperienza estatica prima di vederlo dal vivo. Perciò molti che provano un simile dolore per la mancata emozione preferiscono scoprire cose che non conoscono. Un meccanismo strano, di continua ricorsa verso qualcosa di ideale (o idealizzato). Ecco, è una sensazione che con le persone ci accade meno spesso. Ogni volta che abbiamo a che fare con qualcuno di cui stimiamo profondamente l’opera e talvolta la personalità, una piccola emozione la percepiamo per forza. Da par mio, raramente resto deluso, perché penso davvero che tra i nostri dieci comandamenti debba esserci anche Flaubert: “Non bisogna toccare gli idoli: la polvere d'oro che li ricopre potrebbe restarci attaccata alle dita”.

Cosa fare quando incontri qualcuno che stimi e apprezzi ma non è un tuo idolo? Subentra, a quel punto, il più grande dei doni: la curiosità. Quando mi sono trovato di fronte Terrence Malick, un po’ per caso e un po’ per scelta, ho sentito una vibrazione. Ma l’abbiamo sentita tutti, è chiaro, tutti quei pochi che in un altrimenti pigro pomeriggio di inizio dicembre finimmo in una sala abbastanza inaccessibile dentro uno Stato che proprio accessibilissimo non è. Più dell’attesa, la curiosità: c’è o non c’è? Forse c’è. C’è sicuramente il film, in anteprima nazionale. Entriamo nel campo delle opinioni, chiaramente, ma il film è tra i migliori del suo ultimo periodo (ci vuole poco?). Pur irrisolto, faticoso, altalenante nella narrazione, qua e là troppo epidermico nel passare dall’idillio agreste alla tragedia umana, è un’interessante testimonianza della devozione del regista nei confronti di un mondo cinematografico che si muove tra il Rossellini didattico e il rigore di Bresson.

È la storia di un pastore austriaco, Hidden Life – Una vita nascosta: chiamato alle armi e a giurare fedeltà al Führer, fa obiezione di coscienza, viene arrestato e condannato a morte. È la storia di un martire cristiano, perciò il suo autore ha accettato l’idea di presentarlo in uno dei luoghi simboli della cristianità. Uno spazio protetto, perfetto per uno come Terrence Malick che è per eccellenza l’hidden director.

Personaggio, lo sappiamo, leggendario: due film – e che film – negli anni Settanta, poi un silenzio ventennale e un’epifania bellica alla fine del millennio, dunque un’altra avventura e ora, nell’ultimo decennio, un attivismo sorprendente. Per decenni il settantaseienne Malick è stato una foto, una sola foto: un sorriso timido sotto il capellone da cowboy. Da qualche tempo ne girano di più, quasi una resa del riservatissimo autore alla dittatura delle immagini. A Cannes si è esposto a fine proiezione, per esempio. Eppure, appena scorge un cellulare pronto a rubare uno scatto prezioso (nonostante le infinite raccomandazioni iniziali, tutte puntualmente disattese), Malick, con uno scatto leggiadrissimo, si abbassa oppure volta il capo oppure si sposta. Più di ciò che dice, è interessante vederlo nella sua lotta contro chi vuole immortalarlo.

Prima del film, parla con un filo di voce, non dice niente di particolarmente eclatante. Eclatante, lo sa anche lui, è la sua presenza. Tutti ascoltiamo tenendo presente una sola certezza: “ma quando ci ricapita?”. Non intende fare conferenze dopo la proiezione: accetta solo dialoghi singoli, faccia a faccia con interlocutori disposti ad accogliere le poche risposte che può dare. Naturalmente appena il primo eroe si avvicina per chiedergli qualcosa, tutti noi altri ci avviciniamo facendo finta di niente. Creiamo, così, una piccolissima folla attorno a Malick, visibilmente in ansia, assai vigile nello scovare cellulari o macchinette.

È un uomo curioso, Malick. È più che consapevole del proprio status mitico, ma al contempo appare sempre sorpreso da tante attenzioni. Non è più il Salinger del cinema: si è svelato, si concede. Ma alle sue regole. Regole che accettiamo: per dire, io una sua foto ce l’avrei pure, anche la registrazione vocale. Tuttavia, una volta uscito dalle segrete stanze, ho pensato di aver infranto un patto tra gentiluomini (siamo due gentiluomini, io e Malick?). So solo che, mentre raccontava il motivo per cui ha scelto un soggetto del genere, i nostri sguardi si sono incrociati per qualche secondo: nei suoi occhi timidi ho visto il sincero disagio di un uomo comunque compiaciuto di essere una leggenda. Se volete sapere le cose che ha detto quel giorno, le trovate facilmente online; io, come dire, più che altro ero curioso di vederlo.