Analizzando l’opera pittorica di Michelangelo Antonioni, una ricerca costante svolta in parallelo all’attività di regista e ad essa molto più vicina di quanto si immagini, non possiamo non soffermarci sulle Montagne incantate, acquerelli e collage di dimensioni ridotte, pochi centimetri, in certi casi millimetri, ai quali il regista affianca gli ingrandimenti fotografici, dei veri e propri blow up, di alcuni particolari indagando lo spazio della composizione, i pieni e i vuoti, le peculiarità dei pigmenti del colore e della grana della carta.

La Cineteca di Bologna conserva alcuni di questi lavori che Antonioni ha donato a Carlo di Carlo e che fanno parte del Fondo a lui intitolato, grazie al quale è possibile ripercorrere la sua attività di critico e regista cinematografico, testimonianza autentica dell’amicizia con il regista ferrarese, un legame profondo che ha dato vita al libro Il mio Antonioni, presentato proprio in questi giorni a Roma.

Antonioni comincia a dipingere all’inizio degli anni '60, o meglio riprende in mano i pennelli con cui fin da bambino si dilettava nel ritrarre i propri familiari, la fisionomia  di amici immaginari e i volti di attori celebri come Greta Garbo e Ramón Novarro. Va anche ricordato che Antonioni continuerà a dipingere fino in età avanzata nonostante le limitazioni fisiche della malattia che non gli impediranno di realizzare delle composizioni astratte dai toni vivaci in bilico tra il futurismo di Fortunato Depero e Giacomo Balla (si pensi all’opera Ballafiore sullo sfondo di Identificazione di una donna, 1982) e i collage di Henri Matisse incontrato a Nizza nel 1944 grazie all’attore e pittore Alain Cuny.

Non è da escludere un legame diretto tra la ricerca pittorica, che trova nelle Montagne incantate un singolare approccio allo studio dei pigmenti del colore, e l’uscita di Il deserto rosso (1964) che coincide con il definitivo abbandono del bianco e nero per approdare a un uso sapiente del colore, fondamentale elemento narrativo che alimenta un continuo scambio tra l’ambiente circostante e i protagonisti della vicenda arrivando a condizionare gli avvenimenti del film.

“Che colore hanno i nostri sentimenti?”, sembra chiedersi Antonioni, ma soprattutto, quanto il colore li influenza? Nell’intervista rilasciata nel 1964 a Jean-Luc Godard, a proposito di Il deserto rosso, il regista parla di psicofisiologia del colore, portando come esempio un curioso aneddoto: l’interno della fabbrica durante le riprese è stato dipinto di rosso e questo ha provocato delle liti tra gli operai, presto placate da una mano di verde chiaro. In una scena del film troviamo Giuliana mentre riflette sul tono da dare alle pareti del suo futuro negozio, concludendo che le pareti saranno celesti e il soffitto verde, colori freddi che non dovrebbero disturbare i clienti. Su uno dei muri sono state date alcune mani di vernice, prove di colore che sembrano rievocare le pitture di Mark Rothko, tra l’altro inizialmente il titolo del film doveva essere Celeste e verde, quasi un omaggio alle opere del pittore statunitense. A questo punto viene naturale aprire una parentesi sul viaggio di Antonioni e Monica Vitti nel 1962 a New York per presentare L’eclisse, è in quell’occasione che Furio Colombo, grazie all’amicizia con Domenico Gnoli, li porta a visitare lo studio di Rothko. L’artista era rimasto colpito dalla visione de La notte (1961), “diceva che a New York non si facevano film di questo genere e che quella pellicola in bianco e nero in realtà era un film a colori. A suo parere quei neri, quei neri più chiari, quei grigi, quei grigi chiari e quei bianchi erano la storia di un film a colori”. (Rothko, catalogo della mostra a cura di Oliver Wick, Milano 2007)

Antonioni dopo che Colombo gli aveva riferito l’apprezzamento della sua opera da parte di Rothko, e l’intenzione di regalargli un suo quadro, aveva subito scritto al pittore. Nella lettera troviamo una dichiarazione di vicinanza e di comuni intenti tra i due artisti; “in questi quadri che sembrano fatti di niente, ossia di solo colore” Antonioni trova ogni volta qualcosa di nuovo, “si scopre tutto quello che c’è dietro il colore, a dargli senso, drammaticità, insomma poesia”, e aggiunge, “forse presuntuosamente”, che considera la pittura di Rothko vicina al suo lavoro, se non altro “come esperienza fantastica”. In un articolo di Gillo Dorfles scritto nel 1958 in occasione della Biennale, la descrizione che fa delle “immense, vaste, solitarie tele” di Rothko “dove soltanto una o due tinte, soltanto qualche lieve banda sta a segmentare lo spazio” non è così lontana da quella che potrebbe essere una lettura delle Montagne incantate, anch’esse attraversate dalla linea dell’orizzonte e immerse in “un universo atmosferico in cui bagnano le cose, le persone, la stessa circostante e antistante natura”.

Entrambi gli artisti, “attraverso lunghi studi, sottili esercitazioni che potevano sembrare le prove d’un maniaco o le meditazioni d’un anacoreta”, hanno compreso che “mediante una distillazione approfondita e meditata del colore, e attraverso a una rinuncia sovrana ad ogni forma, ad ogni composizione, ad ogni grafismo, ad ogni intervento del tratto, del segno, del calligramma, ad ogni compiacimento nella grevità dell’impasto, nella volumetricità del rilievo, si poteva egualmente ottenere un effetto importante e persino vistoso, una superficie che “cantasse”, un canto senza parole”. Rothko ha “per primo dopo la profezia di Goethe, compreso che cosa significasse 'malen aus der Farbe heraus', dipingere 'fuori dal colore', in maniera che fosse l’entità colore a parlare attraverso la sua stessa sostanza”. (Gillo Dorfles, Aut-Aut Magazine, 47, settembre 1958, in Rothko, 2007)

Di fronte al “canto senza parole” visivo e sonoro di Il deserto rosso, scandito dalla voce dolce e misteriosa udita sull’isola deserta nel racconto di Giuliana e presente sin dai titoli di testa, ci sentiamo “esaltati o inibiti, indolenziti o eccitati, tramortiti o respinti (…) quello che nessun esperimento psicologico può ottenere, in laboratorio, si può invece raggiungere attraverso la lunga e paziente manipolazione del colore da parte di un artista coscienzioso e attento”. (Gillo Dorfles, Rothko, 2007). Il repentino passaggio dai toni violenti e monocromi alle tinte neutre ha fatto si che Antonioni agisse nella definizione del carattere della protagonista, l’esperienza interiore di Giuliana, la sua nevrosi, viene continuamente sollecitata dall’entità colore attraverso “un test cromatico – esame psicologico obbiettivo dei colori –; metodo che gli ha facilitato l’indagine sulla sua personalità secondo le più avanzate tecniche seguite nella prassi psicologica e psichiatrica”. (Carlo di Carlo, Il colore dei sentimenti in Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, Bologna 1964)

Lo studio dei contrasti cromatici nelle Montagne incantate trova un parallelo con la ricerca cinematografica di Antonioni, affiancata dalla bravura di Carlo Di Palma, lo stesso vale per la scelta reiterata del soggetto, nato un po’ per caso tagliuzzando il disegno di un volto i cui frammenti ricomposti hanno dato vita al profilo di una montagna. Questi paesaggi brulli e rocciosi appaiono anche in Deserto rosso, sono lo scenario in cui è ambientata la favola raccontata da Giuliana al figlio, una natura incontaminata che contrasta con l’aridità del paesaggio industriale del film, qui la presenza dell’uomo è discreta, lo sguardo di una bambina contempla l’immobilità degli scogli che delimitano la spiaggia rosa (siamo sull’isola di Budelli in Sardegna), “rocce che sembrano fatte di carne” immerse in un profondo silenzio.

Già nel cortometraggio su La villa dei mostri (1950) di Bomarzo le forme zoomorfe e antropomorfe erano state accostate da Antonioni alla conformazione rocciosa di un’isola: “La campagna popolata da mitiche sentinelle di sasso” faceva pensare all’isola incantata in cui la maga Alcina “trasformava gli uomini in bestie, in piante, in sassi, in fontane”. L’Orlando furioso riecheggia tra i prati del parco, la voce fuori campo della guida si sofferma sulla scultura di un mostro marino, forse è proprio lei la balena che ai naviganti sembrava un’isola: “veggiamo una balena, la maggiore che mai per tutto il mar veduta fosse (…) Caschiamo tutti insieme in uno errore, perch’era ferma e che mai non si scosse: ch’ella sia una isoletta ci credemo, così distante ha l’un da l’altro estremo”. Antonioni tenta di stabilire un contatto con un mondo ancestrale mitico e irraggiungibile, trovando conforto in una natura antropomorfa, una somiglianza (la prima montagna incantata è nata dalla scomposizione di un viso) evocatrice di una comune origine, ormai dimenticata e cancellata da una industrializzazione selvaggia.

Il fascino dell’isola di Budelli lo spingerà a progettare nel 1969 assieme all’architetto Dante Bini La Cupola, realizzata con un’unica gettata di cemento armato e gonfiata dalla pressione dell’aria al suo interno, una villa in Sardegna, quasi un bunker, in cui potersi ritirare per osservare da vicino le insenature e i pendii rocciosi. Precedentemente un’altra isola, Lisca Bianca situata nell’arcipelago delle Eolie, aveva fatto da sfondo ne L’avventura (1959), una gita in barca in luoghi solitari e paradisiaci presto rivelatisi ostili. Il Ritorno a Lisca Bianca, girato da Antonioni nel 1983 per il programma televisivo di Enrico Ghezzi e Michele Mancini Falsi ritorni per un’archeologia del set, più che un documentario nel quale rievocare il set del film diviene una vera e propria spedizione in quel luogo dove rinvenire tracce, impronte, frammenti e reperti che solo un archeologo (leggi regista) sa vedere. La cinepresa riapproda a Lisca Bianca e il sonoro ripropone le voci dei protagonisti del film, queste si diffondono per l’isola, che ci sembra di vedere a colori per la prima volta, fino a scomparire del tutto ripristinando la misteriosa quiete del luogo, interrotta dall’arrivo di una tempesta. È forse questa la madre di tutte le Montagne incantate?

Numerose apparizioni di montagne, paesaggi vulcanici, alture rocciose o sabbiose costellano l’intera opera di Antonioni, una scelta monotematica che dalla pittura sconfina spesso e volentieri nel cinema come in Zabriskie Point (1970), in parte girato nella Death Valley, il paesaggio desertico di Professione: reporter (1974) e per finire Il mistero di Oberwald (1980) che si apre con una Montagna incantata, qui la correzione del colore utilizzando gli strumenti elettronici diviene quasi manuale, Antonioni può finalmente dire di avere dipinto un’intera foresta, desiderio infrantosi ai tempi di Il deserto rosso quando sognava un bosco bianco.