“L’espressione che le persone adottano quando provano pietà per qualcuno è difficile da replicare, se glielo chiedi. Di solito sbattono le palpebre, abbassano la testa e dicono: ‘Non so cosa dire, coraggio, pazienza…’, o qualcosa del genere”. Questa proposizione e molte altre più o meno enigmatiche presentate sotto forma di didascalie su sfondo nero, spezzano il ritmo narrativo di Miserere, opera seconda di Babis Makridis, pilastro del neonato movimento cinematografico Greek Weird Wave, definito da molti come quella ondata di film della cinematografia ellenica, delineata da personaggi soli e straniati, accompagnati da dialoghi paradossali e immersi in una fotografia ammaliante, a tratti inquietante. La scrittura nuda e asciutta e spesso beffarda di Miserere corrisponde precisamente alla penna di Efthymis Filippou, braccio destro di Yorgos Lanthimos e dei suoi Kynodontas, The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro, prima del grande commiato con La favorita.

Un ricco ed elegante avvocato (Yannis Drakopoulos) vive in una villetta sul mare, con il figlio adolescente e il cane; fuori, il sole tinge l’acqua marina di blu, un blu da rivista patinata, da sogno estivo, da vento tra le palme in un pomeriggio di luglio. La visione idilliaca combacia e stona, tuttavia, con i singhiozzi disperati di un uomo. L’avvocato, di cui non viene mai menzionato il nome, piange seduto e chino sul bordo del letto di una stanza matrimoniale; lo vediamo molto spesso in questa posizione: a torso nudo, in pigiama, in giacca e cravatta. Pertanto, ci sentiamo inevitabilmente partecipi della sua sofferenza (la moglie è in coma da tempo a causa di un’incidente), analogamente a tutte le figure che sono parte della sua quotidianità: la vicina di casa che gli prepara un dolce all’arancia, la segretaria semi-sconosciuta che non esita ad abbracciarlo per interminabili, lunghi momenti, l’addetto alla lavanderia che gli fa persino lo sconto.

L’avvocato vive la sofferenza interiore ed intima come un’ossessione. La volontà che l’altro, il prossimo, chiunque sia disposto a provare compassione si fa sempre più forte (e anche molto infantile), diventa habitude nel senso negativo del termine. È dunque lecito affermare come questa condizione rientri perfettamente nel concetto di un’irrazionale e torbida dipendenza che, come si sa, non porta mai a nulla di particolarmente buono. Ed ecco che, come è logico prevedere, la moglie si sveglia dal coma che ha reso l’avvocato un individuo ormai in grado di sopravvivere solamente per mezzo della pietà.

La maschera piena, tratteggiata da linee d’espressione marcate, ma immutate, e la presenza di Yannis Drakopoulos riempiono e saturano le inquadrature volutamente statiche che riflettono la condizione di stasi che attraversa le due parti in cui il film è diviso e il cui nodo centrale è, appunto, il risveglio della moglie dal coma. Da parte dell’avvocato non vi è alcuna minima intenzione di uscire (o meglio, guarire) dal godimento e dal piacere provocati dalla oiktos, sostantivo che racchiude una molteplicità di sfumature. Chiamiamola “commiserazione”, “compassione”, “compatimento”, “misericordia”, “pietà”. Con Miserere la conseguente perdita di controllo e di razionalità non può che diventare autodistruzione, in un lento perdersi nella spirale di un dolore senza fine.