Ciò che spiazza maggiormente di Miss Marx è essere costretti a osservare la militanza politica come uno sfondo sfocato, quasi irraggiungibile. Scelta alquanto peculiare se si considera la storia di Eleanor Marx, la più giovane figlia di Karl — che non fu solo una delle prime donne della Storia a parlare di femminismo, ma un’attivista per i diritti di tutti gli sfruttati della società di fine Ottocento. Eppure, quel che confonde è anche ciò che rende Miss Marx intrigante, lasciandoci rimuginare a lungo sulla sua schiettezza.
Quello operato da Susanna Nicchiarelli è un tradimento della messa in scena monocromatica del film storico tanto quanto della rappresentazione rassicurante della donna coraggiosa dallo spirito indomito. La tragedia collettiva del XIX secolo è posta a distanza di sicurezza: a tenere le folle di operai lontane da Eleanor non sono solo i cordoni di polizia, ma una scelta narrativa precisa che mette al centro della macchina da presa i personaggi e le loro — le nostre — astrazioni. Perché Miss Marx è un film sul conflitto cinematografico per eccellenza: l’eterna lotta tra parte razionale ed emotiva, quella che sconfessa le icone come esseri umani.
Ammettiamolo: sarebbe stato alquanto facile comporre un ritratto granitico dell’emancipazione, avendo a disposizione la storia politica di Eleanor Marx (“Tussy”, come venne soprannominata affettuosamente in vita). Ma se il proposito è quello di capovolgere i cliché, tocca arrendersi a un senso di straniamento e fragilità che del conflitto sociale, in fondo, è parte integrante. Il periodo che Susanna Nicchiarelli decide di raccontare (1883-1898) diventa uno squarcio temporale in cui lo sguardo di Eleanor si perde nelle parole, pezzi di lettere e pensieri (autentici) che costruiscono un ponte diretto con la contemporaneità. Sebbene Eleanor venga ricondotta per mano tra i disagi dei lavoratori e la povertà del ceto oppresso, al centro restano le contraddizioni familiari e individuali. E soprattutto resta “Tussy”, l’emblema femminile del cambiamento che lotta col suo dramma più intimo.
C’è un filo per nulla sottile che collega Christa Päffgen — interpretata da Trine Dyrholm in Nico, 1988 — e la Eleanor Marx di Romola Garai. È l’attrazione che personaggi dichiaratamente anticonformisti provano nei confronti della conformità, un’ossessione che appesantisce i volti di chi li interpreta e ne smarrisce lo sguardo. La relazione con Edward Aveling consuma i giorni e le notti e ogni tentativo di vivere un “amore libero” (libero dai canoni sociali, libero dai ruoli) fallisce in nome di una passione che non riesce ad allinearsi a modelli di affrancamento più alti. La quarta parete si rompe e la storia di “Tussy” finisce per trasformarsi nel gioco di società preferito dalle famiglie Marx ed Engels: le “confessioni” in cui si rivelano a turno gli ideali, i rituali preferiti, le pulsioni, i timori.
Eleanor è un personaggio più moderno di quello che possiamo immaginare proprio in virtù di questa ambiguità di fondo. Ed è lo sforzo di esibire questa modernità a tutti i costi che rende la firma della Nicchiarelli ancora più leggibile. L’utilizzo della musica rock come esorcismo e terapia, l’anacronismo che fa della colonna sonora il pilastro della narrazione filmica, è un tratto distintivo che qui risulta impossibile ignorare. È il caso emblematico dell’Internazionale socialista cantato al funerale di Engels, destinato a sfumare in una versione furiosa e irriconoscibile.
Se al gruppo punk “comunista” dei Downtown Boys viene affidato il tono del film, ai Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo (che con Susanna Nicchiarelli collaborano dai tempi di Cosmonauta) spetta invece il compito di rifare brani classici e romantici in chiave post-rock. E per quanto didascalico nella sua dichiarazione d’intenti, il quadro è chiaro, privo di ammiccamenti: Miss Marx è un film che si allontana esplicitamente dalla tradizione scenica nel tentativo di liberare la sua beniamina dai pericoli delle mitizzazioni. Eleanor Marx sussurra e urla in faccia allo spettatore le sue motivazioni; claudicante nella dissacrazione, ma “con lo sguardo dritto e aperto nel futuro.”