In occasione del documentario Nessuno ci può giudicare, il doc di Steve Della Casa e Chiara Ronchini dedicato al musicarello (e contemporaneamente della proiezione di Nessuno mi può giudicare, diretto nel 1966 da Ettore Maria Fizzarotti), offriamo un percorso critico su questo importante sottogenere del cinema italiano.
Tra i venti film più redditizi del 1964, qualche posto dietro a Goldfinger e Per un pugno di dollari, spunta anche Gianni Morandi. In ginocchio da te di Ettore Maria Fizzarotti, dove fa coppia con l’allora fidanzata Laura Efrikian, fu visto da oltre quattro milioni di spettatori e incassò poco meno di novecento milioni di lire (rivalutati, circa nove milioni di euro). Praticamente raddoppiò l’appena precedente Una lacrima sul viso, da cui mutuò il cast principale, eccetto ovviamente Bobby Solo. Un anno dopo, in piena overdose western, il trio Morandi-Efrikian-Fizzarotti raggiunse quasi due miliardi in totale con Se non avessi più te e Non son degno di te.
Sempre per lo stesso regista, i due artisti non mancarono l’appuntamento del ’66, sebbene divisi: Morandi con Mi vedrai tornare, accanto alla meteora Elisabetta Wu, mentre Efrikian, vera star del filone, grazie al dittico Nessuno mi può giudicare e Perdono, entrambi veicoli per una Caterina Caselli non proprio all’altezza del divismo cinematografico. Nel fatidico ’68, dopo qualche problema privato, si riunirono nel post-adolescenziale Chimera. Sfruttando rispecchiamenti ed allusioni, con tutto ciò che tale autoreferenzialità comporta nella fruizione del prodotto, questi film risollevarono la Titanus, che, sull’orlo del fallimento dovuto ai costi di Sodoma e Gomorra e Il gattopardo, riprese fiato distribuendoli nelle sale popolari.
Parliamo allora di un grande fenomeno di costume, dotato di una struttura replicabile all’infinito: paesaggio da cartolina, due ragazzi s’innamorano, le famiglie sono ostili, si litiga, lui parte per il servizio militare, lieto fine. Nel frattempo, il protagonista canta la title track. Per certi versi, i cosiddetti musicarelli rappresentano, anche sul calco dei film con Elvis Presley, un’evoluzione dei film musicali in voga negli anni Cinquanta con Claudio Villa o Giacomo Rondinella. Per altri, come il Carosello televisivo evocato dal nome del filone, sono contenitori che accolgono il fotoromanzo, la commedia appaltata a consumati caratteristi (Nino Taranto, Peppino De Filippo, Dolores Palumbo, Gino Bramieri, Bice Valori, Mario Carotenuto…), la canzone da promuovere attraverso primigeni esempi di videoclip. Peraltro, antologie di proto-videoclip quali Viale della canzone o 008 operazione ritmo azzardarono – ebbene sì – una struttura simile a quella della futura MTV: peccato che, altrove, un quartetto inglese stesse scompigliando tutto con Tutti per uno, rendendo i tentativi nostrani quantomeno anacronistici.
In realtà, come ben spiegato da Nessuno ci può giudicare di Steve Della Casa e Chiara Ronchini, questi prodotti industriali raccontano le nuove tendenze dei giovani italiani attraverso le mode musicali, dall’esplosione degli urlatori (Mina, Adriano Celentano, Tony Dallara… e in Urlatori alla sbarra c’è perfino Chet Baker) alla scoperta del beat (Caselli, Rita Pavone, I ragazzi di Bandiera Gialla, Stasera mi butto). Anche quando al centro della scena c’è un melodico (Morandi, Solo, Tony Renis) serpeggia il sentore dell’imminente contestazione. Benché il conflitto tra giovani e “matusa” sia qui comunque destinato a risolversi in nome dell’amore, non dimentichiamo che Marco Bellocchio voleva Morandi ne I pugni in tasca, intuendone il perturbante sedimentato sotto l’immagine del bravo ragazzo. Tuttavia, i musicarelli, al di là del fatto che sanno di avere tutt’altra funzione, intendono al massimo captare un cambiamento del costume, assorbire la novità minacciosa (i capelloni, il rock, l’ingresso nello showbiz) per annacquarla nel rasserenante calderone di un’Italia che, nonostante i comfort del boom, resta ancorata alle tradizioni. Io non protesto, io amo, guarda caso in sala nel ’67, sembra una vera dichiarazione d’intenti, malgrado sia tra i più ruspanti nell’intercettare i moti sessantottini.
Accanto all’allargamento degli orizzonti determinato dall’allora imperante western riletto da Sergio Leone, Sergio Corbucci e via scendendo, nei musicarelli, diretti da scafati mestieranti come Piero Vivarelli, Aldo Grimaldi o Mario Amendola, c’è il trionfo della provincia, dei buoni sentimenti, della riconciliazione finale. Se da una parte si esce dal confine, dall’altra si rivendica la necessità (comodità?) del limite. Ma è un discorso che, se vale certamente per il filone “melodico”, appare meno scontato per altre tipologie di musicarello, sottogenere che, nella sua estemporanea parabola, è pieno di correnti.
Prendiamo il caso di Rita Pavone. La sua è una figura che nasce ambigua: a diciotto anni canta «i primi tormenti, le prime felicità» di Alla mia età o Cuore, diventa la moglie di un uomo più grande di lei (Teddy Reno), interpreta addirittura un maschio ne Il giornalino di Gian Burrasca, memorabile commedia musicale televisiva del ’64 di Lina Wertmuller. Due anni dopo, la regista, sotto lo pseudonimo maschile George Brown, la diresse nuovamente in Rita la zanzara, quasi un miliardo al botteghino. Alludendo nel titolo al famoso scandalo del liceo Parini di Milano, il film rivela un’ipotesi di rinnovamento, affrancandosi dall’occasione semplicemente promozionale e ambendo alle atmosfere del musical hollywoodiano o alla Jacques Demy: trionfano i colori di Dario Di Palma, i capelli di Giancarlo Giannini rifulgono d’un biondo incredibile, i grandi comprimari recitano sopra le righe e c’è anche la star Efrikian. Vanta anche un sequel, Non stuzzicate la zanzara, in cui c’è perfino Giulietta Masina a riferire qualche pretesa felliniana – in realtà è un fumettone e gli incassi si dimezzarono. Su questa scia un po’ più temeraria, da segnalare anche il fiabesco Per amore… per magia con Mina e Morandi (un semiflop, ma è addirittura citato in Sicilian Ghost Story), certi inserti pseudo fantascientifici di Lisa dagli occhi blu, lo psichedelico, tardivo, mancato Terzo canale – Avventura a Montecarlo.
Fino alla fine del decennio, i musicarelli continuarono ad imperversare grazie ai successi di Little Tony, Mal e soprattutto della nuova coppia mediatica Al Bano-Romina che, di fatto, sostituirono Morandi-Efrikian per autoreferenzialità, incidenze private, epica da fotoromanzo. La loro operazione di retroguardia antisessantottina (gli svenevoli Nel sole e L’oro del mondo) tocca con Angeli senza Paradiso un involontario apice del kitsch, con Al Bano nientemeno nei panni di Schubert. Sono gli ultimi fuochi di una stagione indicativa dei gusti del pubblico di allora, da riscoprire anche solo per gusto del modernariato, in fondo la piccola tradizione cinemusicale di una nazione più che altro operistica ed allergica alla sospensione della realtà tipica del musical.