Giunta al suo terzo lungometraggio da regista, Ana Lily Amirpour conferma la volontà di perseverare nel suo personalissimo percorso di reinterpretazione dei generi cinematografici. Dopo l’horror story iraniana di A Girl Walks Home Alone at Night (2014) e gli Stati Uniti post apocalittici di The Bad Batch (2016), è ora il filone superomistico ad essere oggetto di rivisitazione. Mona Lisa and the Blood Moon racconta di una ragazza con capacità straordinarie inserita in un mondo totalmente ordinario, la cui ingenuità la espone all’arrivismo delle persone che incontra dopo la fuga dal manicomio in cui è stata internata per oltre un decennio. Mona è ben conscia del proprio potere telecinetico e di come esercitarlo, ma nutre ancora un fanciullesco disincanto nei confronti del mondo che le impedisce di elaborare un fine per il quale adoperarlo. L’unico impulso in grado di indurla ad utilizzare il suo potere è l’istinto di difesa, tanto nei confronti di sé stessa che verso gli altri.

È proprio con un intervento salvifico nel corso di un’aggressione che si guadagna la simpatia di Bonnie, ballerina e spogliarellista in un locale notturno, che venendo a conoscenza delle straordinarie doti della ragazza ne intravede immediatamente un potenziale da sfruttare per proprio tornaconto. E l’immediata necessità per Bonnie è il guadagno economico. Una svolta che non solo sporca di una certa trivialità le aspirazioni del personaggio, ma porta con sé anche una scelta poetica da parte dell’autrice, la quale ancora una volta decide di tirare il freno a mano sulle ambizioni della propria opera, adagiandosi stancamente su un’esigua soluzione narrativa che non rende giustizia all’intuizione di partenza.

Mona Lisa and the Blood Moon non può dirsi un esperimento non riuscito rispetto ai propri intenti, ma ciò che appare frustrante è constatare quanto essi siano modesti rispetto alla caratura cui potrebbero ambire. Il che riduce il tutto a quella che di fatto è un lineare arco di maturazione compiuta da una protagonista che sulle soglie dell’età adulta mantiene uno spirito fanciullesco che non le può permettere di sopravvivere in un contesto al quale non è ancora pronta. Per farlo Mona deve affinare gli strumenti di cui dispone per approcciarsi alla vita ed è volutamente paradossale che le maggiori indicazioni in tal senso giungano dal figlio di Bonnie, il piccolo Charlie, che costretto ad una rapida crescita imposta da una madre anaffettiva, ragiona, parla e si atteggia come fosse un adulto. Da lui più che da ogni altro può apprendere la distinzione tra l’agio e il pericolo e soprattutto imparare ad assaporare l’inebriante tocco della libertà.

Soluzioni di certo non prive di spessore, ma che nuovamente approdano sullo schermo con una messa in scena scarna, più povera che non essenziale, la quale lascia trasparire un pesante disinteresse verso gli aspetti più squisitamente attraenti del racconto filmico.  La stella nascente del cinema coreano Joen Jeong-seo è centratissima nell’attribuire al suo personaggio il giusto grado di spaesamento, ma anch’essa finisce per cadere vittima di un tono generale fin troppo trattenuto. Amirpour rimane fedele alla propria poetica e prosegue sul sentiero tracciato dai primi lavori, ma purtroppo questo significa rimanere impantanata in quel limbo sospeso tra la volontà di confrontarsi con linguaggi della cultura popolare ben codificati e la presunzione di percepire la propria creazione come superiore ad essi, finendo per servirsene solo in una quantità minima e indispensabile che lascia però un sentore di profonda insoddisfazione.