Non è qualcosa di sussidiario, di decorativo, qualcosa pensato appositamente per concepire il genere come un carapace che al suo interno nasconde altri racconti e altri discorsi, non è nemmeno qualcosa che guarda ad immaginari stranieri con il solo scopo di travasarli in contenitori nuovi senza alcun tipo di filtraggio: Mondocane funziona sopratutto per ciò che non è, rispetto al suo genere e rispetto al nostro cinema. E questo, con ogni probabilità, vale più di tutto il resto.

La distopia, il post-apocalittico, il mondo futuribile senza speranza e senza leggi sono presupposti di cui la nostra industria cinematografica difficilmente ha valutato l’espansione e nemmeno il primo, buon tentativo de La terra dei figli aveva generato particolare entusiasmo in questo senso. Il problema principale, della distopia così come di tante altre storie di genere adottate dal cinema italiano, è che le coordinate testuali sono un’orlatura e le forme di rappresentazione un addobbo: mancano cioè serietà d’approccio e radicalità di sguardo, molto spesso il ricorso al genere è una presa in prestito a cui il destinatario non aggiunge nulla rispetto al proprietario o, peggio ancora, è soltanto un esercizio di riconoscibilità, in sostanza una giustificazione a distinguersi.

Il ragazzo invisibile, per esempio, lavora sui linguaggi e sulle formule del cinecomic americano senza preoccuparsi di doverli conformare ad un ambiente ricettivo diverso da quello di provenienza, al contrario se ne serve come se film di quel tipo in Italia ci fossero sempre stati. Soltanto Gabriele Mainetti aveva ragionato sulle problematiche connesse all’importazione dell’immaginario superomistico e con Lo chiamavano Jeeg Robot aveva dimostrato che anche a Tor Bella Monaca possono nascere gli eroi, che le acque radioattive del Tevere possono trasmettere poteri, che un villain può cantare Anna Oxa e pianificare un attentato all’Olimpico durante il derby, insomma che possiamo fare nostri i significati, i tempi e le ragioni del cinecomic. Un ragionamento che Pupi Avati ha portato avanti con l’horror e Matteo Garrone con il fantasy, per quanto l’uno, ne Il signor Diavolo, giocasse sulla scarnificazione della paura e non sulla sua esaltazione cool, e l’altro, ne Il racconto dei racconti, fosse andato forse davvero troppo oltre rispetto al magistero e alla codificazione definitiva di Peter Jackson.

Alessandro Celli è andato in questa stessa direzione, quella della plasticità del genere, dell’adattabilità dei suoi statuti: con tutti i suoi limiti Mondocane è frontiera, ideologia, strada percorribile, futuro, è in definitiva quello che il nostro cinema, almeno in parte, dovrebbe essere. In una Taranto sterile e desertificata, dichiarata zona interdetta per via di un misterioso disastro ambientale che l’ha resa del tutto inospitale, due ragazzini cresciuti da un pescatore riescono ad entrare tra le “formiche”, un’organizzazione criminale composta prevalentemente da giovani come loro e in lotta costante con le forze di polizia locali.

Il film è molto serio con il genere, cioè mantiene un livello molto alto di coerenza rispetto a quello cui il post-apocalittico americano ci ha abituati perlomeno sul piano visuale: dai palazzoni abitati ormai soltanto dalle rampicanti alle ciminiere dell’acciaieria, dalla polvere delle strade che zufola nell’aria al sole stanco che stagna lungo la costa, dalle motociclette ai corpi sudati e sporchi dei personaggi. In un testo così giustamente saturo di visivo, così serio con la rappresentazione del degrado post-atomico e così preciso nei riferimenti narrativi, Celli riesce anche a scommettere sul non detto, su quelle intuizioni puramente estetiche che non hanno epilogo o sviluppi ma che si portano appresso un intero mondo di sottintesi (come, per citare il più illustre dei casi, i simboli applicati sul costume di Immortan Joe in Mad Max: Fury Road, oppure l’auto del Guy Pearce di The Rover).

Per esempio, il personaggio di Barbara Ronchi, la poliziotta ossessionata dalla ricerca del formicaio e dalla cattura dei suoi abitanti, viene introdotta con un occhio pesto e una vistosa medicazione al naso: non ci è dato sapere cosa le sia successo, quando e per quale motivo, eppure una così semplice idea di make-up dice molto più del suo passato e del suo carattere di quanto non facciano le sequenze di dialogo che la riguardano. E Mondocane è pieno di queste trovate sottili, di queste idee di puro genere, come la dolcezza con cui Testacalda, il leader delle formiche, accarezza l’enorme crocifisso che i due protagonisti gli portano in dono, oppure la battuta in dialetto calabrese che scambia con il suo sottoposto quando prima di allora lo avevamo sentito parlare sempre in un italiano perfetto.

Certo, manca qualcosa, forse persino molto soprattutto in termini quantità: manca l’azione, compressa a pochi momenti cruciali che tuttavia l’avrebbero richiesta prima e con tutt’altro vigore, manca la motivazione del villain, troppo forte per essere così periferica, così poco al centro del dibattito tra le forze in gioco, manca il controcampo sociale della Taranto Nuova, quella dei ricchissimi, appena appena abbozzata e priva di contrasto, di rapporti gerarchici. Mondocane senz’altro non ha le spalle abbastanza grosse per essere prototipo, non ha la solidità necessaria per diventare modello, eppure sviluppa i discorsi giusti per essere punto di partenza, per andare lungo direzioni nuove, per misurarsi con linguaggi più ambiziosi e con immaginari finalmente alla portata del contemporaneo.