Icone, star, divi e dive . . . sono diverse le espressioni che usiamo per descrivere gli attori e le attrici a noi più cari: nel caso di Michel Piccoli, la sua carriera è qualcosa di più ancora: un viaggio attraverso 170 film nelle diverse terre della cinefilia che lo rende interprete del cinema stesso e delle sue evoluzioni dagli anni 50 ai giorni nostri. Dai film di genere a quelli d’autore, dai toni meta-cinematografici della Nouvelle Vague al surrealismo di Buñuel e al grottesco di Ferreri, Michel Piccoli è Monsieur Cinéma, sinonimo della finzione cinematografica e della settima arte, che l’attore ha incarnato nel film di Agnès Varda Cento e una notte (1995), omaggio al centenario della nascita del cinema.

Fin da Il disprezzo (1963) di Godard, il personaggio di Piccoli rappresenta davanti alla macchina da presa il processo creativo filmico. Nel ruolo dello sceneggiatore Paul Javal, Piccoli cerca di scrivere un’Odissea per Fritz Lang che possa essere al tempo stesso radicale e classica, d’autore e commerciale, una sintesi tentata dallo stesso Godard. Piccoli ritornerà a lavorare con il regista in Passion (1982), ancora una volta un film sul processo creativo cinematografico e il difficile equilibrio tra richieste artistiche e commerciali.

Due lunghi sodalizi caratterizzano il percorso artistico dell’attore francese: sia Marco Ferreri che Louis Buñuel gli affideranno, ripetutamente, ruoli importanti in film che rappresentano l’innovazione stessa del linguaggio cinematografico. Il regista italiano lo vuole per la prima volta in Dillinger è morto (1963) nel ruolo di Glauco, designer industriale, intrappolato nelle tragiche finzioni che crea della sua vita e costretto, per sopravvivere, “a portare continuamente una maschera”. Proprio come un attore. Anche in questo caso, quindi, Piccoli si mette in scena evidenziando la finzione cinematografica, una dimensione che viene esplorata, spesso ironicamente, nelle altre opere realizzate con Ferreri, dal western urbano Non toccate la donna bianca (1972) alla riflessione sull’immaginario post-coloniale in Come sono buoni i bianchi (1988), passando per gli eccessi de La grande abbuffata (1974) che richiamano l’attenzione sulla finzione narrativa.

Anche con Buñuel, Piccoli utilizzerà la sua distaccata ironia per contenere personaggi eccessivi come il molestatore Monteil in Diario di una cameriera (1964), il sinistro Husson che spinge Séverine alla prostituzione in Bella di giorno (1967), un ruolo che Piccoli riprese dopo quarant’anni in Bella sempre (2006) di Manoel De Oliveira, il Marchese de Sade ne La via lattea (1969), un corrotto e insignificante ministro ne Il fascino discreto della borghesia (1972).

Oltre a queste due lunghe collaborazioni, Piccoli ha lavorato con i maggiori registi francesi, sia suoi coetanei come Chabrol, Demy, Deray, Lelouch, Malle, Rivette e Sautet, che appartenenti a generazioni successive, come Leos Carax. Hitchcock gli diede una parte nello sfortunato Topaz (1969), mentre in Italia partecipò sia a film esplicitamente politici come Todo Modo (1976) di Elio Petri sia ad opere in cui l’impegno politico anti-borghese è mediato da una riflessione psicoanalitica come Salto nel vuoto (1980), per cui vince il premio per l’interpretazione maschile a Cannes, e Gli occhi, la bocca (1982), entrambi di Bellocchio.

Per un attore che ha sempre incarnato il potere del cinema di deformare la realtà, in uno degli ultimi ruoli della sua carriera, il cinema italiano gli diede la possibilità con Habemus Papam (2011) di Nanni Moretti di creare anche un’immagine complementare, quella del cinema che anticipa la realtà. In tutti i casi, sempre Monsieur Cinéma.