Un’anziana donna con una vistosa acconciatura bionda è seduta su un costoso divano verde in uno sterminato quanto malconcio mobilificio nel nulla americano. Nonostante il devoto figlio David le chieda più volte di alzarsi in modo da andare via, lei si rifiuta di farlo. Questo l’inizio di Mother, Couch (2023), sorprendente opera prima di Niclas Larsson, sospesa in una ironica dimensione onirica e surreale che diventa sempre più accentuata con il progredire del film e il serrarsi dei dialoghi tra David e la madre. Così accentuata che chi guarda non può fare a meno di sentirsi accanto a David, forse anche di più di Gruffudd e Linda, fratello e sorella maggiori, tutti da padri diversi e di diverse nazionalità.

Loro non hanno mai molto cercato la frequentazione di David e non sembrano essere preoccupati per le sorti della madre. Sentiamo la pressione a cui David è sottoposto dalle richieste della madre e da quelle della sua famiglia. Infatti, oltre ad essere figlio, David è anche marito e padre. Come riuscirà a riprendersi la sua vita e uscire dal mobilificio, da cui, oltretutto, i legittimi proprietari, due gemelli identici anche nel nome, sembrano sempre più ansiosi di buttarlo fuori?

“Tua madre sembra la barzelletta della donna che entra in un pub e si scopa un americano, un gallese e uno scozzese”, dice a David la figlia di uno dei proprietari del negozio, Belle, facendo riferimento alle diverse nazionalità dei tre fratelli e dei rispettivi padri mai conosciuti. Ma Mother, Couch non è una barzelletta e non è slapstick: sotto la sua ironia di varie sfumature di nero, il film sviluppa una riflessione profonda sul rapporto tra genitori e figli, sulla necessità di lasciare andare e accettare scelte e comportamenti diversi dalle aspettative, sul perdono che ci si deve reciprocamente per le nostre imperfezioni ma che non è scontato sapere o volere dare.

Lo stesso David è un padre che ha paura di essere un cattivo genitore: in una delle scene più tese del film, per rispondere ad una banale telefonata di Gruffudd, perde di vista la piccola figlia Bree su una spiaggia e reagisce in modo esagerato e punitivo nei confronti della bambina quando se la ritrova sotto il naso e sorvegliata, per di più, da persone estranee. “Tu hai chiesto scusa a Bree?”, gli chiede la madre quando David le rimprovera una serie di mancanze affettive. Una domanda complementare a quella che la stessa donna rivolge al figlio nel mezzo del sorprendente climax finale: “Allora mi hai perdonato?”.

L’attenta regia, con le sue invenzioni visive, e una scrittura di cui è chiara la matrice letteraria, a volte quasi teatrale, anche se il film è tratto da un romanzo di Jerker Virdborg, contribuiscono a creare un’atmosfera che non ha nulla di patetico e molto di perturbante. Tutto il cast risponde con convinzione alla sfida autoriale di Larsson di straniamento progressivo ad iniziare dai due fondamentali protagonisti: Ewan McGregor regala a David una fragile e apparente imperturbabilità e Ellen Burstyn incarna la madre senza nome per cui si è preparata lungo tutta una carriera, da L’ultimo spettacolo (1971) a L’esorcista (1973), da Alice non abita più qui (1974) fino a Requiem for a Dream (2000). Non sono da dimenticare Rhys Ifans e Lara Flynn Boyle nei ruoli dei fratelli, F. Murray Abraham nella doppia parte dei gemelli mobilieri e Taylor Russell.