La letteratura e il cinema inglesi sono tra quelli che più hanno raccontato l’orrore della Prima Guerra Mondiale. Non tanto, o quantomeno non è solo, il conflitto vero e proprio, quanto gli effetti e le cicatrici che quella carneficina senza precedenti aveva lasciato sul Paese e sulle sue certezze. La conclusione del conflitto rappresentò per il Regno Unito la fine di un’epoca, quella della rigida divisione tra classi, dell’aristocrazia e delle grandi dimore signorili, dell’Upstairs, Downstairs di una famosa serie televisiva della BBC anni ’70 sui rapporti tra padroni e servitù, ispirazione per Gosford Park e Downton Abbey. È il crollo definitivo e inevitabile di un sistema consolidato che aveva regnato per secoli e si era cristallizzato negli anni della rivoluzione industriale e del lungo regno della regina Vittoria e di suo figlio Edoardo.

In quegli anni si avverte forte anche l’assenza dei tanti giovani di belle speranze partiti senza fare ritorno. È la Generazione perduta del libro di Vera Britain, sono i volti mai invecchiati dei war poets come Wilfred Owen, che insieme a migliaia di altri ancora ci guardano dalle fotografie color seppia in cui disperati baffetti adolescenziali cercano di coprire vite costrette a crescere, e a finire, troppo in fretta. Un tema che riemerga periodicamente nella letteratura d’oltremanica, da Un soldato ritorna di Rebecca West a Un mese in campagna di Joseph Lloyd Carr, da Quel che resta del giorno di Ishiguro fino all’ultimo romanzo di Graham Swift, Mothering Sunday, da cui è tratto il film omonimo presentato alla Festa del cinema di Roma.

Come nel romanzo di Ishiguro (e nel bellissimo film che ne trasse James Ivory) i due elementi della fine di un’epoca e dei traumi della guerra sono al centro della narrazione ma trovano qui una diversa risoluzione. Siamo nel 1924, il giorno della festa della mamma. Tre famiglie dell’upper class britannica si riuniscono per un picnic. Peccato che a festeggiare non ci sia quasi più nessuno, visto che tre dei loro figli sono morti in guerra. L’unico sopravvissuto tarda ad arrivare perché impegnato in un incontro proibito con la giovane cameriera Jane, orfana innamorata dei libri.

Ed è lei la vera protagonista della storia, l’unico personaggio destinato ad avere un futuro, per quanto difficile e complicato. Gli altri sono solo fantasmi, ombre sopravvissute di un mondo spezzato dal dolore e dalla guerra, cancellato dalla storia. Al contrario del maggiordomo di Ishiguro, troppo immerso in quelle regole per potersene liberare, Jane sembra la sola a poter andare avanti, grazie proprio all’assenza di legami con il passato. E non è una questione d’età: i pochi giovani ancora in vita, pur non credendo più nei dettami di quella società che ha portato alla guerra (e che presto li farà sprofondare in un'altra), non riescono però ad affrancarsi da essi. Troppo radicate le distinzioni di classe, troppo forte l’aspettativa su chi è rimasto, chiamato a riempire da solo i tanti vuoti lasciati da chi non c’è più.

Per rendere questo spaesamento, questo senso di frammentazione e di sgretolamento, la regista Eva Husson spezzetta la storia, la dilata, ne mischia i piani temporali, confonde la realtà e la fantasia. Una scelta che non sempre convince, soprattutto quando deve tratteggiare la vita futura di Jane e le sue aspirazioni di scrittrice, ma che riesce comunque a comunicare come fu proprio l’immane tragedia della guerra ad accelerare il cambiamento, a vincere gli ultimi baluardi di un mondo che forse già non esisteva più. A fare la differenza sono i due attori protagonisti, Odessa Young e Josh O’Connor, che si mettono a nudo (e non solo in senso figurato) in maniera ammirevole, contrapponendosi ai compassati e trattenuti coniugi Niven di Colin Firth e Olivia Colman.

Scavando con la macchina da presa sui loro corpi e sui loro visi, sui loro gesti e tra le fessure delle loro parole, la regista riesce a portare a galla un lancinante senso di vuoto che inghiotte tutto e tutti. Un’ultima annotazione: vedere a distanza di trent’anni sul grande schermo, anche se solo per pochi minuti, l’incredibile Glenda Jackson, basterebbe per ripagare qualsiasi cinefilo della visione del film.