Delphine Deloget, dopo un percorso da documentarista, approda alla sua prima esperienza di lungometraggio narrativo con Niente da perdere, presentato nella selezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2023, scegliendo di raccontare la storia di Sylvie (Virginie Efira), una madre single che si ritrova a scontrarsi con l’ottusità e il cinismo della macchina amministrativa e giudiziaria che ruota intorno ai servizi sociali.
Deloget (che insieme a Olivier Demangele e Camille Fontaine è anche sceneggiatrice del film), ritrae Sylvie nella sua quotidianità all’interno della città portuale di Brest, alle prese con un lavoro precario e madre amorevole e imperfetta del piccolo Sofiane e dell’adolescente Jean-Jacques. Il suo è un personaggio eccentrico e libero con una intensa vita relazionale, sempre empatica e complice con i figli, gli amici, il fratello e persino con gli avventori del pub dove ogni sera lavora per sbarcare il lunario.
Una realtà borderline, fragile, talvolta poetica, che una sera si infrange in mille pezzi quando Sofiane, rimasto solo in casa, rimane vittima di un incidente domestico mentre cerca di prepararsi le patatine fritte. È l’inizio di uno scontro impari col determinismo asettico delle istituzioni, un viaggio desolante che svela l’impossibilità di sbagliare all’interno di una società blindata nella gabbia di un ipotetico welfare, quando i servizi sociali messi al corrente dell’incidente decidono di sottrarle il figlio e darlo in affidamento, valutando inadeguato il suo ruolo di madre.
Ma la visione di Deloget è chiara e ci conduce sin da subito a empatizzare con Sylvie sebbene la sua forza dirompente e la sua anarchia, pronta a sfociare in gesti estremi di insofferenza all’ingiustizia legalizzata (vedasi la testata all’assistente sociale) rendano mutevole il posizionamento dello spettatore.
La scelta di Virginie Efira come protagonista del film, stella nascente del cinema francofono, già nota per i ruoli in Sibyl (2019), Benedetta (2021) e Il coraggio di Blanche (2023), è semplicemente perfetta per il ruolo di una madre che lotta per riavere suo figlio, riuscendo in maniera efficace a restituire la rappresentazione di una umanità eccentrica, che afferma potentemente il diritto di essere una buona madre anche al di là di rigidi tracciati socialmente accettati.
Rien à perdre si eleva al di sopra degli standard del dramma sociale grazie all’intensa interpretazione e il talento di Efira, facendoci scorgere il tumulto interiore della protagonista, nonché il caos in cui progressivamente precipita la sua realtà. La narrazione incede in una modalità altamente dinamica supportata dalle scelte della fotografia di Guillame Schiffman come i frequenti primi piani di Silvie e degli altri personaggi, in prevalenza ripresi con una telecamera a mano.
Al suo opposto troviamo la figura dell’assistente sociale, Madame Henry (India Hair) che incarna il modello perfetto di presunta superiorità morale legittimata dalla burocrazia impersonale, rappresentato con l’imperturbabilità del volto e l’assenza di empatia e umanità. Sono due polarità antitetiche che descrivono e abitano lo spazio in modo inconciliabile.
Il finale a sorpresa di Rien à perdre è probabilmente quello che ci si aspetta in termini di giustizia reale al termine di una narrazione a tratti senza speranza, che restituisce e in qualche modo risarcisce quell’amore materno ingiustamente deprivato, attraverso un gesto altamente liberatorio.