È da ormai qualche tempo che il cinema sudcoreano ha imparato a farsi conoscere, a diventare parte sempre più ricorrente del discorso cinematografico occidentale: piano piano i nomi di riferimento stanno cominciando a fissarsi nell’immaginario, così come i film-manifesto. E questo non sembra valere solo per gli stretti cinéphiles, ma anche per un pubblico più ampio, che dopo Parasite è stato travolto da una vera e propria Bong-mania, spinto alla ricerca di nuovi registi da inscrivere nel pantheon dell’autorialità orientale contemporanea.
Ed è forse arrivato il momento che Park Hoon-jung diventi uno di questi: perché con Night in Paradise ci ricorda come il cinema sudcoreano non abbia paura di niente. Non ha paura del dolore, né della tragedia; non ha paura della responsabilità etica dell’eroe, libero di essere moralmente deprecabile e insieme appassionante, appunto un eroe positivo; né di discutere i ruoli di genere, portando in scena figure femminili fortissime (come aveva fatto nel suo primo film, The Witch part 1). Ma soprattutto non ha mai paura di contaminare i generi, usando un gangster movie per lavorare sul melodramma e insieme sul comico.
All’inizio di tutto c’è ovviamente la vendetta. Tae-gu è un giovane gangster che dopo un attentato alla sua famiglia decide di vendicarsi: ma la vendetta, una volta attuata, innesta a valanga una serie di altri eventi spinti dall’ira della gang rivale. Così Tae-gu è costretto a nascondersi su un’isola, nella casa di un ex-gangster che vive con sua nipote Jae-yeon. Proprio attraverso l’incontro/scontro con Jae-yeon, Tae-gu riscopre il valore dei legami e viene messo di fronte alla nuova possibilità di redimersi e di salvare qualcuno: ma niente è facile come sembra.
In Night in Paradise si rivede tanto altro: c’è sicuramente il Takeshi Kitano di Sonatine (imitato proprio nell’iconico gesto del puntarsi la pistola alla tempia, stavolta in un alter ego femminile). Ma si rivede anche il senso estremo dello spazio del buon vecchio cinema di Hong-Kong, e per essere più recenti la stessa radice della comicità nel dramma del collega Bong Joon-ho.
Gli elementi del gangster movie, o meglio dell’action, ci sono tutti. E nel gioco intricato della caccia all’uomo, dei tradimenti e dei bagni di sangue Park Hoon-jung riesce anche a portare avanti una propria etica della violenza. Perché nelle sequenze lunghissime di scontri fisici, alternate - con effetto quasi paradossale - a momenti di raccolto intimismo, la violenza si rivela nel sua dimensione più nobile. La violenza infatti non è il semplice mezzo per il raggiungimento di un fine (la morte dell’avversario), ma è il gusto stesso di stremare chi si oppone al proprio obiettivo, la metaforica rivalsa di chi è stato privato di qualcosa. Proprio come Tae-gu e Jae-yeon.
La violenza è allora un rituale sacro, da consumarsi fino all’osso, da obbedire per trovare una vera liberazione. Senza la lotta, nel suo livello più epidermico, più stremante, sembra non poterci risoluzione, o una via di fuga: e allora questa (Park Hoon-jung lo sa bene), una volta intrapresa deve essere portata avanti fino alla fine.