Agli occhi di altre e ben lontane tradizioni cinematografiche, il film di vendetta è forse l’asserzione più vigorosa del cinema orientale, quella che ha portato nuovi linguaggi e seduzioni nell’industria, quella che più ha lavorato sulla sua prassi e che più ha ragionato sui suoi codici per irreggimentarli, aggiornarli, sistematizzarli. Importante, se non addirittura fondamentale, in questa storia di annessione al contemporaneo l’intermediazione di Quentin Tarantino, che a Cannes 2004 diede il suo beneplacito a Park Chan-wook e ad Oldboy nel periodo in cui lui stesso stava rifunzionalizzando il tema con Kill Bill.

Dalle ripetizioni tematiche di Mr. Vendetta e Lady Vendetta, con quella visualità esasperata e continuamente riaffermata, alle contraddizioni morali legate all’atto di uccidere di Killing, dalla fluidificazione tutta pause e intermezzi di The Woman Who Left all’approccio mentale di Confessions, giocato sulla complessità della psiche e non sulla spettacolarità dell’azione, la vendetta è l’argomento pervasivo di quella parte d’Oriente di cui più facilmente riconosciamo le istituzioni. Se non altro perché Hollywood ne ha condiviso il fascino e, soprattutto, ne ha distribuito il potenziale su più sguardi.

Non importa che il tema sia più integrato alle dinamiche dell’action, come fa John Wick per esempio, o che esso rimanga più lontano dalla semiologia mainstream e dunque più connesso alle sofisticazioni arthouse (Blue Ruin è in assoluto uno dei casi più interessanti): la vendetta sviluppa drammaturgia e produce storie, induce pathos e assicura un sensuoso e perverso sentimento di appagamento.

Per Night in Paradise la formula del revenge movie non entra nella logica della messa in discussione, è in sostanza un sottinteso del genere gangsteristico, dove la vendetta è regolamentata al sistema, istituzionalizzata come principio. In quest’ottica non viene contestata la ragionevolezza dell’azione vendicativa e nemmeno ne vengono polemizzati i metodi d’esecuzione, sulla falsariga di un modello illustre come può essere Violent Cop, ma se ne indagano le conseguenze senza che il suo corollario venga mai disconosciuto.

Secondo le più tradizionali norme narrative del gangster movie, la malavita è un organismo composito in cui basta poco per sovvertire gli equilibri tra le famiglie che ne fanno parte: lo stesso vale per la funerea e piovosa Seoul contemporanea dove Tae-Gu, braccio destro di un boss tra i più potenti della città, tenta di uccidere il presidente di una banda rivale per vendicare il presunto assassinio della sorellastra e della nipotina. L’uomo sopravvive miracolosamente, ma l’affronto è tale che la guerra non si può evitare; Tae-Gu viene mandato in gran segreto nella remota isola di Jeju per qualche giorno, in attesa di essere raggiunto dal resto della sua squadra per poi sparire per sempre in Russia.

In questa vicenda di tradimenti da riscattare e di colpe da estirpare, dove la resa dei conti si consuma nella consapevolezza che il tempo rimanente è fine a se stesso e privo di scappatoie, il film non si concede nulla al di fuori della sua medesima formula. La storia non presuppone nient’altro che gli stilemi del suo genere senza coinvolgere riformulazioni o variazioni, o anche solo senza approfondire i suoi stessi assiomi. Night in Paradise ricava il meglio di sé dall’azione, da quelle sequenze di scontri corpo a corpo in cui difficilmente film di questo tipo falliscono (memorabili, in tal senso, la colluttazione in autostrada e l’attentato al presidente Doh nella sauna), mentre gran parte del resto si accontenta di replicare a memoria gli automatismi del genere in modo che nulla di radicale riesca davvero a tracimare.

L’intreccio si ferma alle sue premesse e latita in quel poco che ne scaturisce, mentre il mondo malavitoso non ha gradi di complessificazione e viene evocato soltanto attraverso quegli elementi che superficialmente associamo alla mafia d’alto rango: tra uomini accigliati e ben vestiti ed espressioni ormai espulse per troppa genericità dal loro stesso immaginario come “pezzi grossi al libro paga” e “coltellate alle spalle”, alla rappresentazione del crimine mancano sottigliezza e sfumature.

Allo stesso modo la vendetta è insieme assunto ed esito di quel mondo e, soprattutto, di quella forma testuale: Park Hoon-jung non guarda al tema da angolazioni diverse rispetto a quelle presupposte dallo sguardo incontestabile dello stilema cui il film appartiene, ed è strano per un regista che solo dieci anni fa esordiva al cinema con la sceneggiatura di I Saw the Devil. In quel caso Park de-automatizzava la normale concezione di vendetta, che di conseguenza non aveva caratteri di radicalità soltanto nella proliferazione della violenza e nella rappresentazione ipertrofica, spietata del male, ma anche nell’idea che il peccato da pagare accettasse come unica forma di espletamento il tormento ciclico, l’eterno ritorno della pena (e del vendicatore) come una spirale infinita. Night in Paradise respinge quelle intuizioni e non prova nemmeno a sostituirle, stabilizzandosi su un sistema di rinunce e abolizioni che evita di prendere di petto la questione e all’ingorgo chiassoso di ferocia, follia e disperazione preferisce un fatalismo edenico, un’innocua disillusione.