La maggior parte degli onori che la critica ha tributato a Peter Bogdanovich, regista, sceneggiatore, attore e storico del cinema, nei giorni successivi alla sua scomparsa il 6 gennaio scorso, rischiano di limitare il suo contributo di innovazione del linguaggio cinematografico alla prima parte della sua carriera e di privilegiare il critico sul cineasta, il sostenitore americano della politique des auteurs che rende Ford e Hitchcock artisti e non semplici maestri dell’intrattenimento sul suo lavoro davanti e dietro la macchina da presa.

Una direzione opposta potrebbe essere invece più produttiva per riconsiderarne la carriera senza invocare la narrazione di promessa non realizzata: quella di decostruire le opposizioni critico/cineasta e autore/attore nell’aporetica incarnazione che di queste apparentemente opposte dimensioni ha dato Bogdanovich. I costanti, reciproci richiami tra queste diverse sfere intellettuali illustrano la poetica del regista basata sulla citazione, sul simulacro e sul meta-filmico in un incessante spettacolo che non ha mai fine e che spesso diventa il soggetto stesso della finzione come in Vecchia America (1976), Rumori fuori scena (1992), Hollywood Confidential (2001) e Tutto può accadere a Broadway (2014).

Significativamente, la produzione cinematografica di Bogdanovich è incorniciata tra due film-nel-film. Bersagli (1968), esordio frutto del sodalizio con Roger Corman, inizia proprio con la proiezione della fine del film che il regista Sammy Michaels (interpretato dallo stesso Bogdanovich) ha appena terminato di girare con il veterano Byron Orlock (Boris Karloff). In un gioco di citazioni, si tratta in realtà di materiale girato da Roger Corman. Bersagli è un omaggio al cinema horror e ad una delle sue icone, e, allo stesso tempo, un contributo determinante per lo sviluppo della New Hollywood. Con L’altra faccia del vento (2018), Bogdanovich porta a termine, da autore e attore, l’ultimo progetto incompiuto del suo mentore Orson Welles, completandolo e interpretando il narratore Brooks Otterlake.

La produzione di Bogdanovich è caratterizzata da un’analisi della società americana attraverso il dialogo con i generi cinematografici dell’età d’oro di Hollywood e dei cambiamenti nei meccanismi di produzione e promozione degli studios con cui, da auteur nella tradizione di Welles e Hitchcock, il regista avrà scontri costanti. L’ultimo spettacolo (1971), candidato a otto Oscar di cui due vinti, porta il western crepuscolare agli anni 50 e allo spettro della guerra di Korea: l’ultimo spettacolo del cinema di paese destinato a chiudere è proprio la proiezione di Fiume rosso (1948) di Howard Hawks.

Le convenzioni della screwball comedy vengono utilizzate per un divertito ritratto della San Francisco agli inizi degli anni 70 in Ma papà ti manda sola (1972), grande successo con i travolgenti Ryan O’Neal e Barbra Streisand, e nel più intimo e malinconico panorama newyorchese di …e tutti risero (1980), il suo film più personale e da riscoprire, segnato dalla tragedia personale per l’omicidio della fidanzata Dorothy Stratten e dal disastro commerciale nonostante le interpretazioni da ricordare di un cast corale in cui spiccano Audrey Hepburn e Ben Gazzara. Frank Capra serve come modello per Paper Moon – Luna di carta (1973), Oscar per la miglior attrice non protagonista a Tatum O’Neal, in cui l’indimenticabile bianco e nero di Laszlo Kovacs ricostruisce l’iconografia dell’America della Grande Depressione e del New Deal dei fotografi del Farm Security Administration come Walker Evans e Dorothea Lange. Saint Jack (1979) e Mask – Dietro la maschera (1985) riprendono convenzioni del social problem film, offrendo, rispettivamente a Gazzara e Cher, due ruoli che ne rilanciarono la carriera.

Bogdanovich contribuirà anche, sempre nella duplice prospettiva di autore che attore, a reinventare il fenomeno delle serie TV partecipando a I Soprano (2004).