L'idea è questa: prendere la massima rappresentazione della famiglia tradizionale, nel periodo dell'anno in cui viene maggiormente glorificata, durante la festività che da sempre la celebra e la rafforza, attraverso un sotto genere cinematografico (la commedia sentimentale natalizia) che forse è quello che è rimasto più di qualunque altro pervicacemente uguale a se stesso e refrattario ai cambiamenti, e proporre un netto cambio di prospettiva, semplice ma, per il contesto in cui avviene, profondamente destabilizzante.

Abby (Kristen Stewart) e Harper (Mackenzie Davis), vivono felicemente la loro storia d'amore da quasi un anno, ma arrivate al periodo di Natale, Harper dovrebbe rientrare a casa dei suoi genitori per i consueti festeggiamenti in famiglia.  In uno slancio d'amore per Abby, che proprio in questo periodo ha perso i genitori e comprensibilmente digerisce male la generale euforia natalizia, Harper la invita a seguirla, per passare insieme le feste a casa della sua famiglia.

La famiglia di Harper è quanto di più tradizionale ci possa essere: padre conservatore che tenta la scalata in politica come sindaco e madre perfezionista intenta a costruire attorno al marito una famiglia da copertina. Oltre ad Abby, giornalista, portata su palmo di mano dai genitori, ci sono anche Sloane, che con i suoi due figli rappresenta una sorta di ideale di madre e moglie da mostrare nelle foto di famiglia e poi c'è Jane, la figlia da non prendere in troppa considerazione, quella strana, nerd, bravissima con i computer che ha in lavorazione da molti anni un libro fantasy e ha una sfrenata esuberanza che infastidisce un po' tutti.

Durante il viaggio per raggiungere la famiglia però Harper confessa ad Abby di non aver mai fatto coming out e dunque nessuno di loro sa che lei è lesbica. Decidono quindi di simulare una semplice amicizia e di resistere qualche giorno con la promessa che alla fine delle feste, Harper dirà tutto ai suoi genitori. 

Ed è proprio in questa idea di “tradizione”, sia cinematografica sia culturale, che una pellicola del genere si muove; diventa questo in effetti il punto nodale della questione e la sfida più difficile della regista Clea DuVall, già attivista lesbica da molti anni che qui maneggia un materiale parzialmente autobiografico: giocare con la tradizione, dentro alla tradizione e non metterla in discussione ma aggiornarla. Lavorare con le regole del genere senza ribaltarne il paradigma fondativo ma mostrando quanto i confini di quella che comunemente chiamiamo “tradizione” possano essere assai più elastici e permeabili alle novità di quanto si tenda a credere.

Fra commedia sentimentale e commedia degli equivoci, il dramma corre sotterraneo e silenzioso, avvertibile ma gestito con leggerezza. Un dramma tutto interiore che viviamo principalmente attraverso il disagio di Abby, costretta in una finzione che tollera sempre meno e che trova tremendamente forzata e tuttavia comprensibile e accettabile perché necessaria ad Harper per  compiere il suo difficile percorso di coming out. Ed è nell'incursione in questa difficoltà, nel senso profondo di quel gesto, quando un modo di essere diviene plastico, reale, attraversabile, visibile e dunque, per qualcuno, finalmente abitabile, che la pellicola trova i suoi momenti più intensi.

Alla fine il quadro dopo essere andato, più o meno metaforicamente, in pezzi, si ricompone e il disvelamento finale permette una comprensibile e attesa evoluzione nei rapporti familiari con tanto di allargamento di orizzonti e prospettive dei genitori, altrimenti impensabile. Così una certa idea di “famiglia” non viene più stravolta ma solo ripensata e l'amore di due genitori è in grado di accogliere assai più di quanto loro stessi si credono capaci di poter fare.

Però, mi direte voi, qui è tutto molto facile. Certo, pure troppo.  Forse per chi ci è passato e ha vissuto con dolore una situazione simile, magari senza che questa si potesse risolvere con altrettanta comprensione, è quasi irritante la facilità con cui tutto porta verso l'ennesimo lieto fine. Ma nelle commedie sentimentali natalizie, non è sempre tutto straordinariamente facile? Certo che sì! Fa parte del gioco, del girotondo dei buoni sentimenti, di quell'idea di nucleo familiare che comunque e malgrado tutto, sempre si deve ricomporre.

Proprio per questo, quello che compie la regista con questo film, pur senza ostentare alcuna pretesa, è un passo importante. Perché mentre diverte e intrattiene (e lo fa bene, perché il film è piacevolissimo), amplia una prospettiva, offre nuovi punti di vista, abitua un pubblico a vedere un'altra realtà possibile, vicinissima ma magari percepita come distante e dunque incomprensibile, normalizzando ciò che altrove è proposto come anomalo, mettendo in scena un cambiamento possibile dentro ad un contesto familiare, in cui tutti possono ritrovarsi e in cui tutti possono pensarsi.

E mentre l'happy ending finale ci riporta ad un senso di pacificata e ritrovata armonia familiare, ci accorgiamo che quelli che credevamo fossero gli immutabili confini di un genere sempre uguale a se stesso si sono di fatto ampliati, hanno assorbito il cambiamento e la tradizione si è aggiornata. E' sempre Natale, come dalla notte dei tempi, ma non è mai stato così nuovo e forse nemmeno così bello.