"Nessuno lascia casa a meno che casa non sia la bocca di uno squalo". Sono i versi di di Warsan Shire, poetessa britannica, classe 1988. Quel che troviamo nelle parole potenti e vertiginose della scrittrice inglese è la sensazione che la frontiera, come spazio, come concetto, come stato in luogo, è qualcosa che non può essere sopportato. Ma guai a non poterlo raccontare. La frontiera è qualcosa di invalicabile, il cui vivere è transitorio, difficile da discutere e da mettere in scena; è come cercare di rispondere a una domanda che è da sempre senza risposta. Ed è tra la domanda e la risposta che si inserisce il documentario di Gianfranco Rosi, che ha cercato di offrire uno spazio in cui le domande che non trovano risposta possano nuovamente essere enunciate.

Durante la visione di Notturno, in concorso alla 77a Mostra del Cinema di Venezia, Rosi riprende, nel corso di tre anni sui confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano, la quotidianità che cerca di farsi spazio tra le tenebre delle guerre civili, tra le dure foschie plumbee delle dittature e delle colonizzazioni. Tante voci narranti, tante storie differenti, ma ognuna di queste è segnata a vita da ferite sempiterne.

Non c'è un modo semplice di osservare e restituire realismo e veridicità a realtà e popolazioni molteplici che hanno subito ingiustizie e ingerenze pluridecennali. Il regista sceglie di affrancarsi da qualsiasi giudizio, non assolve, non discerne, cerca di non porsi come un'autorità insindacabile tra la realtà e la scena, anche quando il soggetto filmato non è evidentemente un attore, né tenta di esserlo (ma rischia di diventarlo). Rosi trova abilmente una fenditura in cui sottrae le considerazioni; lo fa pur rimanendo in prossimità del soggetto che filma, anche quando il soggetto non è un soggetto ma è un carcere, anche quando da carcere si fa teatro di un ospedale psichiatrico, anche quando l'elemento di confine, il concetto di frontiera è occupato da una madre yazida, un cacciatore in barca e una maestra elementare che fa terapia di classe.

Assistiamo come canne al vento alle immagini che si susseguono. La distruzione è l'unica linea di demarcazione che separa i paesi, una geografia del dolore scritta con il sangue degli sciiti, alauiti, sunniti, yazidi e dei curdi. I segni della guerra vibrano nei canti e nei balbettii dei bambini, dentro le coscienze, è tutto materiale quotidiano. Il quotidiano non è qualcosa che li definisce, ma qualcosa che inesorabilmente atterrisce, che racconta più delle devastazioni, più degli scontri. Il concetto di normalità qui somiglia a un vestito squarciato che tenta di essere ricucito: a dover essere ricucita è una certa manutenzione della realtà, è una quotidianità a cui non si sa bene come tornare.

Rosi ci lascia immergere in tanti territori differenti: gli occhi, ora ciechi ora onnivori, tentano in tutti i modi di mettere a fuoco la quantità incredibile di informazioni che recepiscono. Un paesaggio di rovine, luoghi sacri, campi incolti, quartieri demoliti dai bombardamenti, e la guerra resta sullo sfondo come un'eco sorda, ferma nella sua contraddizione, tra l'incudine e il martello, domanda senza risposta. Gianfranco Rosi ha abitato la contraddizione, l'ha ripresa, l'ha respirata. Come ha realizzato con i suoi precedenti lavori, Sacro Gra e Fuocoammare, Rosi costruisce il suo ultimo lavoro come una serie di composizioni a inquadratura fissa, tableaux vivants, monadi d'umanità statica, con quella percezione di fondo che, inesorabilmente, ci suggerisce che ad essere preda dell'immagine è più un certo feticismo del reale, più che un culto, una liturgia icastica vera e propria.