Novecento si apre con i titoli di testa che appaiono sul quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, che la macchina da presa, dapprima stretta su un primo piano dell’operaio al centro dell’opera, attraverso un quieto movimento si allontana fino a mostrare il dipinto nella sua interezza. Chi è stato al Museo del Novecento a Milano sa che all’inizio del percorso, dell’esposizione permanente, è situato, da solo, quello stesso quadro: un chiaro simbolo e manifesto del Novecento. Come gli operai del quadro i contadini del film vanno incontro al nuovo secolo e alle sue novità.
Il primo atto, dopo la sequenza di apertura, inizia con la nascita di due bambini: il povero e il ricco, il figlio illegittimo ed indesiderato e il figlio a lungo atteso. Bernardo Bertolucci ha dichiarato, in un’intervista, che “Olmo e Alfredo, il contadino e il proprietario, sono i due personaggi che allora rappresentavano per me la contraddizione, il contrasto, il conflitto, l’armonia improvvisa”.
Olmo Dalcò e Alfredo Berlinghieri nascono il 27 gennaio 1901, giorno della morte di Giuseppe Verdi. Olmo nasce però prima di Alfredo e, per tutto l’arco della narrazione, è sempre un passo avanti ad esso: dalla pubertà al lasciare la casa natale fino al vivere realmente ciò che all’altro è negato o in un certo qual modo posticipato: la guerra, la famiglia, l’amore, la ragione. Alfredo se non subisce le proibizioni dal padre padrone è direttamente impossibilitato all’azione. Non è capace di agire, fino a quando emula i comportamenti di Olmo. La Storia si dispiega, attraverso entrambi questi personaggi, e così allo spettatore è mostrato l’avvento dei macchinari sempre più innovativi, il lavoro nei campi, i balli e i canti popolani e quelli reazionari, i primi moti comunisti, l’avvento del fascismo, la fame, la produzione del cibo.
Nessun personaggio è lasciato al caso, ogni individuo ha valore e Bertolucci mostra quanto basta di ognuno perché si possa creare un legame con lo spettatore. Difficile però ricordare i nomi dei quaranta, o più, familiari di Olmo come fa lui nella scena del suo ritorno, dopo la prima Guerra Mondiale. Uno dei momenti più intimi ed emotivi, in cui Olmo saluta quasi tutti e la madre, Rosina, lo vede, lo riconosce subito, ma non gli corre incontro né gli si butta fra le braccia, si limita a sistemare quel figlio che è ancora il ragazzino reazionario, sognatore e pensieroso, quello che aveva dimenticato il fagotto alla sua partenza. Tutti questi momenti di intenso melodramma verdiano, Bertolucci li recide per lo più con tagli netti, passando così a crudezze della realtà o a eventi modellati sulla spregevole ferocia bestiale e amorale di alcuni personaggi.
Bertolucci, secondo Stefano Socci è: “un’esteta, filtra e distilla la Storia, l’affabula con l’espediente tecnico del flashback, ne fa un gioco di scatole cinesi. Ad esempio si dilunga nel racconto degli ozi di Ottavio, autentico arbiter elegantiarum, in compagnia di Ada e di Alfredo, a Capri, dove il primo ama fotografare scugnizzi nudi incoronati di mirto; oppure strizza l’occhio allo spettatore di facile appetito nella sequenza in cui Neve masturba Olmo e Alfredo all’unisono; o cade nel grand guignol ammiccante delle scene di stupro, violenza e massacro, spesso amministrate da un grottesco, ghignante, lemurico Attila”.
Bertolucci in Novecento inquadra soprattutto la realtà contadina e si dilunga in poetiche sequenze che rendono omaggio ai volti, ai corpi ed ai lavori dei contadini e delle contadine emiliane, ma anche allo scontro di classe. Il tutto compreso in quell’affresco di Storia che si serve di una trama in cui sono evidenti i continui richiami alla grande letteratura, alla poesia, alla pittura, al teatro fino ad arrivare al cinema dei maestri: da Renoir, fino a Visconti e De Santis, da Ford a Kurosawa.
Un grande flusso di storie e temi, orchestrato da Ennio Morricone, che emerge da ogni singola inquadratura, da ogni tenue sfumatura, opera del noto direttore della fotografia Vittorio Storaro, da ogni battuta della sceneggiatura di Bernardo e Giuseppe Bertolucci e di Franco Arcalli: che essa sia una bestemmia, uno scambio di opinioni, in una delle discussioni tra Olmo (Gérard Depardieu) e Alfredo (Robert De Niro), o tra i nonni, dei primi due, il vecchio Alfredo Berlinghieri (Burt Lancaster) e Leo Dalcò (Sterling Hayden), oppure un macabro dialogo tra Regina (Laura Betti) e il fascista Attila (Donald Sutherland). Ogni singola parola ha il suo peso così come ogni nome è legato ad un ruolo preciso e quindi insostituibile perché denso di simboli, magari più sottili, che attingono da figure storiche e da leggende popolari allo stesso tempo: si pensi alla figlia di Olmo, Anita che porta il nome della moglie di Garibaldi. O anche al nome di Olmo stesso che come racconta Bertolucci - in apertura al film restaurato e a cui sono state colmate ben settecento lacune - è frutto di un’idea venuta a causa della moria, in quel periodo, degli olmi in Emilia.
Come ha scritto Francesco Casetti: “Novecento è un emblema non solo a causa di un gioco di particolare e universale, ma anche in forza del suo immaginario; le contropartite stilistiche della sua politicità non stanno solo nella razionalità e nell’epicità, ma anche nell’abbandono al piacere della visione”.
Un’abbandono a quel piacere trasmesso dalla visione di quelle immagini che, nonostante la durata complessiva, appaiono come frammenti veloci che si imprimono nella mente di chi osserva. Come ad esempio la sequenza che ritrae Olmo e Stella - la moglie di un contadino che nel secondo atto viene arrestato - quando capiscono che non possono fare nulla per salvare i compagni e sono in una posizione di apparente superiorità, ma materialmente sono impossibilitati all’azione e quindi posti al limite del quadro, avvolti dal grigiore della nebbia invernale. Ma di esempi se ne possono fare un’infinità perché trovare un solo momento che racchiuda tutte le emozioni e le riflessioni che Novecento suscita è per lo meno difficile. Forse la giornata del 25 aprile li riesce a tenere insieme un po' tutti. Giornata in cui prende avvio - dentro, sopra, sotto e intorno alla “più ampia bandiera rossa apparsa sullo schermo” secondo Gin Piero Brunetta - il processo ai padroni, e quindi anche ai padri.