In Ogni opera di confessione non viene ritratta la Reggio Emilia conosciuta per i celebri monumenti, per le sue chiese e per le opere d’arte che esse contengono: da Carracci a Correggio, da Procaccini a Palma il Giovane, da il Guercino fino ad arrivare ad altrettanti imponenti nomi di grandi maestri dell’arte emiliana e non solo. Nel documentario non c’è né la Reggio famosa per il formaggio e il topino della sua pubblicità, e neanche quella ricordata (dai veri cinefili) per quelle colline emiliane che sono state sfondo e protagoniste di maestosi affreschi filmici come Novecento di Bertolucci e Marcia trionfale di Bellocchio, ma anche Don Camillo di Duvivier e i Don Camillo e l’onorevole Peppone e Don Camillo monsignore…ma non troppo di Gallone.
In Ogni opera di confessione è inquadrata però la Reggio Emilia che si vede dall’autostrada, quella meno affascinante e che in lontananza è segnalata dalla serie di ponti di Calatrava. I ponti, come è lo scopo del documentario, sono stati progettati anche per una riqualificazione di quella zona.
Il film di Alberto Gemmi e Mirco Marmiroli lascia a lato una certa parte della storia della città e si concentra sulla realtà industriale. Tempo fa quella realtà era popolata, molto probabilmente, da vite per lo più operaie, ma ora è deserta o meglio dimenticata. Il complesso di capannoni è ancora lì - ignaro di quale fenomeno lo abbia portato alla desolazione - a battersi solingo contro le intemperie del tempo e quelle atmosferiche.
Da quanto si evince dal documentario chi popola questa discussa area della città sono le famiglie di rom, i gruppi di preghiera che riportano in vita luoghi in disuso (per le loro funzioni religiose) e alcune persone anziane. Il protagonista o meglio lo sguardo che, unificandosi a quello del suo spettatore, fa iniziare questo racconto di immagini e suoni, ma senza alcun dialogo, è quello di un uomo d’età avanzata che ha deciso di trasferirsi in un attico che si affaccia proprio su quel complesso di capannoni abbandonato. Un tempo quel complesso abbandonato fu un importante “agglomerato” industriale, specializzato nella produzione aerea e ferroviaria: le officine meccaniche reggiane.
Solo durante i titoli di coda il montaggio sonoro - di quello che risulta essere un vociare confuso di vari discorsi posti uno sull’altro - fa sì che il protagonista riveli parte del suo passato ossia il suo lavoro come tornitore di mezzi di aviazione, che ancora osserva sognante. Così lo sguardo affezionato e malinconico di questo personaggio è una sorta di guida umile e servile a ciò che il documentario di Gemmi e Marmiroli cerca di far risaltare: il nuovo tessuto sociale che si è formato, quel “contesto di Reggio” che il protagonista vede come casa. Tutto questo nel quadro di una situazione di attesa di un “piano di riqualificazione” che “prevede oggi il coinvolgimento delle strutture abbandonate e di tutta l’area circostante”.
Un documentario, a suo modo coinvolgente, che non ha bisogno di parole per esprimere il suo messaggio. È proprio grazie all’assenza di quell’eccessivo e inutile cicalio (che popola le nostre vite) che Ogni opera di confessione permette allo spettatore d’immergersi in quella sequenza, per lo più statica, di immagini “solo et pensoso”, come lo è l’anziano protagonista osservatore dal suo balcone.