Nel 1993 Guillermo del Toro ha esordito con Cronos: film che ha portato parte della critica ad elogiarlo per lo stile raffinato, ma a non incoraggiarne l’intreccio narrativo. Probabilmente hanno ragione. Cronos non lo si ricorda per una trama originale. Tuttavia l'uso dell’amuleto e del vampirismo si distinguono come tematiche più inconsuete. Il prologo funziona come innesto di un mistero che, a parole, non è mai totalmente svelato.

Il film infatti racconta di un alchimista Umberto Fulcanelli (personaggio già citato da altri registi come Pupi Avati in Zender) che nel 1530 creò un dispositivo, dotato di un meccanismo ad orologeria, capace di donare la vita eterna. Il meccanismo, 450 anni dopo, finisce nelle mani dell’antiquario messicano Jesús Gris (Federico Luppi): un ometto baffuto che vive con la moglie, ballerina di tango, e la nipote orfana Aurora. Jesús trova all’interno della sua bottega la vecchia scultura ritraente un angelo in legno, a cui ora manca un occhio, ma non sa che al suo interno c’è un covo di blatte. Esseri immondi alla cui visione solo Aurora pare scossa e intenta ad ucciderli.

L’antiquario decide quindi di “restaurare” la scultura al cui interno trova un marchingegno dorato, che curiosamente aziona rimanendone ferito. Da questo momento non sarà più lo stesso: taglia i baffi per ringiovanirsi e riscopre il legame amoroso e civettuolo con la moglie. Peccato che l’effetto duri poco e, come se fosse in preda ad una crisi d’astinenza, ha la necessità di farsi pungere nuovamente dal marchingegno simile ad uno scarabeo. Gris non sa come comportarsi e non è conscio di ciò che sta accadendo al suo corpo: colui che ha la chiave - il manoscritto dell’alchimista - è il dispotico e morente Dieter de la Guardia (Claudio Brook). De la Guardia si serve del nipote tonto Angel (Ron Perlman), come di uno schiavo, per cercare di ottenere da Gris il meccanismo e poterlo finalmente usare su di sé.

Aurora, la piccola bimba taciturna che ricorda tanto i miti sulla dea di cui porta il nome, è l’unica ad osservare i cambiamenti inquietanti del nonno. Quando Gris risorge, ed è “grigio”, lei lo accoglie e lo cura. Lo sostiene fino alla fine e, solo a quel punto, pronuncia una parola. Un richiamo che farà tornare in sé Jesús nonostante quelle piccole dita rosate e pure, rigate di sangue, lo tentino. Del Toro dipinge così, il ritratto visionario di un vampiro languido, che inizialmente non sa di esserlo - non ha chiesto quella metamorfosi - e che si rivela essere solo un uomo letteralmente a brandelli e a cui un destino infame si è ritorto contro.

Fin da questa sua prima opera - che segna anche l’inizio del lungo sodalizio con il direttore della fotografia Guillermo Navarro - si possono riscontrare la cura che del Toro conferisce alle scenografie e le sue più caratteristiche ossessioni per gli insetti, le imperfezioni, il trucco. Colori, oggetti, ogni dettaglio e azione è densa di significati: difficili da cogliere nel profondo con una sola visione.

In Cronos non riesce, forse, a costruire il mondo fantastico, oscuro e tenebroso dei film successivi. Oltre al richiamo sempre fedele della tensione vibrante tra sacro e profano, anche la sua vena sarcastica che investe politica, religioni, credenze e storia è già matura. Ci sono già anche i semi che lo porteranno alla futura realizzazione di La spina del diavolo e di Il labirinto del fauno. Film in cui ha approfondito la combinazione dei generi horror e fantasy, ma guardando il mondo attraverso gli occhi dei bambini.