In occasione dell’uscita nelle sale di La regola del silenzio , il cinema Lumière, oltre al film in versione originale sottotitolata, offre in programma un omaggio a Robert Redford, in cui poter rivedere alcune delle sue opere più importanti, entrate di diritto nella storia del cinema. Oggi,  all’età di 75 anni, l’attore e regista californiano firma la sua nona regia, portando sullo schermo un thriller politico, girato secondo i canoni classici del genere. Presentato fuori concorso alla 69sima edizione del Festival di Venezia, La regola del silenzio – come sottolineato dallo stesso Redford in conferenza stampa a Venezia lo scorso settembre–ha per  temi principali le proteste civili e politiche, la difesa degli ideali che portano alla via della contestazione, i contrasti generazionali, ed infine, il grosso cambiamento epocale nel modo di fare informazione.

Amato dai cinefili e ben voluto dai critici, Redford ha ottenuto parecchie recensioni positive per The Company You Keep e di seguito possiamo leggerne due esempi.

Mary Corliss del Time magazine scrive: « Redford […]in quasi ogni film ha rappresentato il centro etico del buonsenso.[…]Come regista, non meno che come attore, (qui) ha cercato di capire e spiegare le azioni a volte sconcertanti  della gente comune. Il suo ultimo film The conspirator  del2010 era stato ispirato allo stesso modo da uno dei capitoli neri della storia d’America […]. Entrambi The conspirator  La regola del silenzio hanno a che fare con figure sospettate di terrorismo sul territorio degli Stati Uniti; entrambi  cercano le ambiguità psicologiche all’interno dell’indulgenza insita nel  Primo Emendamento,verso i diritti di coloro i quali possano essere stati indotti a compiere azioni sbagliate dai propri ideali».

Leslie Felperin scrive su Variety :  «La regola del silenzio […] con quel suo modo così distaccato e fuori moda, soddisfa una passione per un tipo di film drammatico guidato dal dialogo e dal personaggio, che entra nella questione  senza tuttavia impantanarsi nella verbosità. […] C’è qualcosa di innegabilmente convincente, forse perfino romantico, negli estremisti  americani degli anni ’60, e nei compromessi che scelsero  di accettare  o meno, un argomento inesplorato nel cinema hollywoodiano, a parte in eccezioni degne di nota come Vivere in fuga (1988)  di Sidney Lumet e pochi altri.»