È impossibile non parlare di “poesia visiva” riferendosi a The Wind, film americano tanto eccellente quanto sfortunato del regista svedese Victor “Seastrom” Sjöström.
La storia di Letty Mason (una straordinaria Lillian Gish), che dalla Virginia si trasferisce presso il cugino in una valle del deserto texano ininterrottamente spazzata dal vento, non ebbe successo alla sua uscita nelle sale cinematografiche nel 1928 perché l’avvento del cinema sonoro aveva già dirottato in tempi rapidissimi le preferenze del pubblico sulla nuova tipologia di film (100% talkies) e non bastò la colonna sonora sincronizzata con effetti sonori impressa sia su pellicola sia su disco a impedirle di causare un’ingente perdita economica alla Metro-Goldwyn-Mayer.
Il restauro in 4K realizzato dal MoMA nel 2023, oltre a restituire al film la sua impressionante potenza visiva, ha permesso a Timothy Brock di riadattare e dirigere la partitura composta per archi e percussioni da Carl Davis nel 1983, che sottolinea perfettamente sia l’impetuoso scatenarsi della natura, sia il travaglio psicologico della protagonista del film.
Questo one woman show infatti si regge sulla portentosa prova della diva (della sua sterminata filmografia ricordiamo almeno Nascita di una Nazione di David W. Griffith), il cui personaggio passa dall’essere in balìa delle forze esterne (gli uomini e la natura) al diventare padrona del suo destino, in un vero e proprio coming of age che – seppur ai nostri occhi possa apparire leggermente stereotipato, soprattutto nella conclusione – finisce per avallare l’ideologia civilizzatrice di conquista del West, facendo in modo che le suddette forze vengano domate.
Se il bruto che si cela sotto le sembianze dello spasimante di Letty viene giustamente punito e “naturalmente” seppellito sotto la sabbia (sebbene il finale originario prevedesse una conclusione tragica, poi cambiata per le preoccupazioni della produzione in merito a possibili ripercussioni sulla carriera della Gish), è la battaglia contro il vento la più importante per la protagonista e quindi per lo stesso film.
A stabilirne l’importanza non è soltanto il titolo del lungometraggio, ma anche un intertitolo collocato nei primi secondi, che ci presenta l’opera come “la storia di una donna che entrò nel regno dei venti”. Come già nelle sue opere precedenti (in particolare nel capolavoro Il carretto fantasma, del 1921), Sjöström si dimostra ancora una volta maestro nel piegare la tecnologia al servizio dell’arte: per dare visualizzazione all’anima del “vento del nord” realizza sovrimpressioni e doppie esposizioni con le immagini di un cavallo, che simboleggia – secondo le credenze degli indiani che abitano il deserto – proprio lo spirito del vento.
Sono immagini potenti e suggestive, come tutte quelle che inquadrano il deserto battuto dalle raffiche di vento che sollevano la sabbia: i cicloni che si avvicinano pericolosamente agli insediamenti umani rispecchiano il turbamento e la confusione della protagonista, mentre la sabbia che si solleva continuamente, si infiltra nelle case e si abbatte sui vetri delle finestre come un’entità minacciosa è quella forza che mette a dura prova la stabilità psicologica di Letty e la sua salute mentale.
Più volte, del resto, la minaccia della pazzia è lanciata su di lei come un avvertimento, pienamente supportato dalle meravigliose inquadrature del deserto: in campo lunghissimo, esse esplicitano la solitudine e l’isolamento degli uomini nonché la durezza e l’ostilità dell’ambiente naturale, che rese difficoltose le stesse riprese del film. Lilian Gish si avvalse di una controfigura (Una Merkel) per le scene più difficili, mentre il continuo soffiare del vento (riprodotto artificialmente da otto motori di aeroplano) creò non poche difficoltà al lavoro sul set, allestito soprattutto nel deserto Mojave.
Rivedendola oggi, possiamo certamente dire che quest’opera avrebbe meritato sorte migliore.