Si è scritto e lavorato poco in merito alla fascinazione di Christopher Nolan nei confronti del cinema western. A guardarla bene, in effetti, tutta la sua filmografia trasuda lo spirito di quel genere. Sono pellicole che raccontano di uomini ossessionati dal superamento di un limite, spinti verso la conquista di una frontiera (temporale, spaziale o affettiva che sia), che abitano un mondo in cui le donne ricoprono sì un ruolo fondamentale ma stentano a occupare il proscenio.
Sono film fondativi, di una nazione, di un mito, di un (diverso?) immaginario. Pellicole che scavano dentro le radici della loro matrice (un caso che molti titoli inizino con il prefisso “in-”?) per provare a scardinare un linguaggio, un paradigma, uno scheletro perfettamente strutturato e costruire qualcosa di nuovo, di futuristico, di unico.
Oppenheimer non fa eccezioni. Né il film in sé, né il suo omonimo protagonista. Nolan confeziona un biopic d’altri tempi, un claustrofobico coming of age di tre ore in cui scava in profondità nella Storia, nella Storia del cinema e nel cuore del suo personaggio. Si inizia con una citazione che rimanda ai miti greci, Prometeo nell’esattezza, e si finisce con una sequenza che più nolaniana non si può (il cappello, il doppio, la riproposizione temporale, lo sguardo contemplativo).
In mezzo c’è tanto cinema ma, soprattutto, c’è tanto cinema americano in grado di condurre il nostro sguardo verso quello che è il cuore del film: la capacità, nel bene e/o nel male, della società statunitense di costruire un immaginario, di dare forma alle idee. La narrazione legata alla bomba atomica e alla caccia alle streghe comuniste che ne deriva è solo il pretesto per indagare e portare in scena quello che Nolan crede che sia il potere più forte di tutti, persino di un ordigno nucleare: il potere delle immagini.
Durante la sequenza centrale del Trinity Test (nome che sicuramente al pubblico più attento non può che destare qualche sospetto vista la ridondante ossessione del regista per il numero 3), il cineasta gira l’ennesima scena meta cinematografica della sua carriera: Oppenheimer osserva l’esplosione da una sorta di cabina di proiezione; i suoi colleghi sono seduti ordinatamente pronti per ammirare lo spettacolo; la luce invade lo schermo e solo in un secondo momento si fa strada anche il sonoro. Lo scienziato sta creando un’immagine, sta dando vita a qualcosa di mai visto prima, sta plasmando il nuovo mondo e compiendo il primo passo verso la tanto vituperata egemonia (non solo culturale) del suo Paese.
Proprio qui si concretizza la messa in abisso di Nolan. Oppenheimer è un film classico ma al tempo stesso assai contemporaneo, un lavoro di ricerca quasi filologica su un immaginario che ha contribuito a rendere grande un cinema e una nazione, un racconto su un uomo che ha cambiato le sorti del pianeta e che grazie alla sua visione di come usare la tecnologia ha plasmato la società. In tal senso Oppenheimer è probabilmente il lavoro più autobiografico di Christopher Nolan, un film in cui regista, protagonista e pellicola in sé si relazionano alla stessa maniera e si sovrappongono sull’orlo di una voragine profondissima.
Sul finale di Dunkirk, si faceva riferimento a un mondo nuovo. Sul finale di Tenet, si faceva riferimento a una bomba. Sul finale di Oppenheimer la bomba è esplosa e ha forgiato il nuovo mondo. Proprio come i pionieri del west, proprio come i pionieri del cinema. Il potere delle immagini è la frontiera alla quale il cowboy solitario Christopher Nolan continua a tendere. Per nostra fortuna.