Oppenheimer riproduce, attraverso il girato in Imax 70 mm e le scelte connesse allo sguardo da adottare nei singoli contesti, quell’ “incommensurabile” di cui il filosofo tedesco Günter Anders disquisì nella sua riflessione post-atomica. Se gli occhi di un intellettuale, però, non possono prescindere dalla “misurazione” etica e politica e la sua paralisi del linguaggio è alla base della difficoltà antropologica di formalizzare la nuova era atomica, nel mondo di oggi, in cui lo spettro cataclismico si riaffaccia minacciosamente, l’ampio sguardo di Christopher Nolan dà allo “smisurato” andersiano una forma altalenante che contrappone i piani del visibile (la visione e l’allucinazione soggettiva di Oppenheimer colorata dalla fotografia di Hoyte van Hoytema, il suo percorso conoscitivo e sperimentale, la sua educazione sentimentale) e del nascosto (la distruzione di Hiroshima e Nagasaki che fa reclinare il capo al demiurgo inquieto e la cui visione è preclusa anche a noi spettatori).

Attraverso questi due livelli di lettura, alcuni dei quali vivificati da un elegante e “oggettivo” bianco e nero, Nolan adatta due testi, potenziandoli con la musica tonante e descrittiva di Ludwig Göransson: American Prometheus di Kai Bird e Martin J. Sherwin e le analisi filosofiche di G. Anders in “Considerazioni sulla situazione atomica”. Se l’adattamento del testo di Bird e Sherwin è la base biografica ufficiale da cui il regista è partito per la realizzazione del suo primo biopic, le considerazioni di Anders rappresentano un sostrato filosofico-antropologico che sembra materializzarsi nelle trame visionarie e nella psicologia inquieta di Oppenheimer; nonostante la fonte non sia accreditata, i suoi riverberi elucubranti sembrano prepotentemente irradiarsi nell’affresco realista: un vero e proprio saggio sul dubbio e sull’immagine filosofico-teologica di un Occidente in pieno declino morale.

Attraverso il potenziamento del dettaglio, i primissimi piani e lo scandagliare occhi smarriti e membra incandescenti, Oppenheimer crea una vibrante weltanschauung che fonde il razionalismo tipico del regista alla profondità introspettiva delle connessioni che in ogni suo film creano legami al di là del tempo e dello spazio: quei rapporti che fanno incendiare le stelle o ardere di passione terrena.  

Nolan fuoriesce dall’illusione (ripensiamo a The Prestige o a Interstellar) e penetra un immaginario più denso, cupo, vero, abitato da fantasmi atomici e vite immerse nell’ambiguità etica; non più immaginazione foriera di duplicazioni e moltiplicazioni illusionistiche e pseudoscientifiche. Nulla di ciò che vediamo è falsificato o falsificabile, proprio come un postulato fisico, e tutto ciò che riprende la macchina da presa si esaurisce nell’impossibilità di una nuova ri-trasformazione umanistica post-atomica, lungo un’Odissea prometeica verbosa e in progressione ascendente come la scala Shepard utilizzata per il tappeto sonoro di Dunkirk.

Il “salto nell’assoluto” di cui parlava Anders ha catapultato l’homo faber in una dimensione di onnipotenza negativa, capace solo di “diventare morte” e il regista, miscelando in un perfetto dispositivo filmico dramma, legal thriller e horror d’atmosfera, ci ha regalato un viaggio appassionante e stratificato, percettivo e sensoriale, abbacinante come la dissoluzione di una supernova.