Sagome nere si stagliano su un fondale bianco. Uomini che camminano, inquadrati dall’alto. Sembra un teatro delle ombre: è l’apertura di La donna della retata, film di Yasujiro Ozu, datato 1933. Un inizio che è già indicativo di un genere d’appartenenza e di un’influenza stilistica. Gangster story atipica, noir intimista frutto di un influsso esercitato sul regista giapponese dalla cultura cinematografica americana: La donna della retata (titolo originale: Hijosen no honna) è atipico anche nella stessa filmografia di Ozu, almeno quella più conosciuta dal pubblico europeo.

Negli anni Trenta, infatti, Ozu non ha ancora eletto a suoi temi prediletti quelli della famiglia e del confronto generazionale che lo identificano nella ricezione critica occidentale, ed è maggiormente indirizzato verso le sperimentazioni linguistiche e tematiche. Ciò non significa che non si ritrovino anche qui elementi che saranno poi riconducibili a una sua riconoscibilità stilistica, ma è interessante approcciarsi a questo film – ora disponibile grazie al restauro in 4K operato nel 2022 da Shochiku Media Worx Inc. con la supervisione tecnica del National Film Archive of Japan – senza compararlo con le opere della sua filmografia successiva.

Del resto, questa non è l’unica incursione del Maestro nel gangster movie: già Spensierato e La moglie di quella notte (entrambi del 1930) esploravano il medesimo universo tematico, con un criminale intenzionato a cambiare vita (il primo) e un uomo che decideva di compiere una rapina per necessità per poi costituirsi (il secondo).

Se dunque già la sequenza iniziale è rivelatrice dell’appropriazione degli stilemi figurativi del noir da parte di Ozu (il contrasto tra il bianco e nero, la simbologia della contrapposizione tra il bene e il male), tale impianto visuale viene poi abbondantemente amplificato ed esplorato nel prosieguo del film, con attenzione maniacale all’inquadratura perfetta e a straordinari effetti luministici, attraverso uno studio attentissimo delle ombre e del posizionamento delle fonti luminose interne alla inquadrature, con un esito non soltanto esteticamente bellissimo ma anche tematicamente rilevante: lampioni e lampadari sovrastano spesso i personaggi in inquadrature dal basso, con la macchina da presa posizionata ad altezza tatami, a richiamare sottilmente il destino che incombe su di loro con il suo carico di colpa.

Luce e oscurità, da un lato visivamente ben delineate, dall’altro tematicamente amalgamate: il protagonista è un criminale ma subisce una pressione etica interiore quando un giovane pugile rischia di rovinare la vita alla propria tenera sorella per seguire le sue orme. Un dilemma che si estende poi alla fidanzata (una straordinaria Kinujo Tanaka) nella parte finale, quando, in fuga dopo l’ultima rapina, i due devono scegliere se scappare e passare una vita da fuggitivi oppure consegnarsi alla giustizia. Ozu dimostra di saper adattare i codici del noir alla sensibilità giapponese di quegli anni.

Pur utilizzando ambientazioni tipiche del genere ma inconsuete per il cinema del sol levante, come la palestra e la sala da biliardo, espunge dalla narrazione elementi troppo violenti per trattenerne le complessità simbolico/tematiche: il già citato contrasto tra bene e male, l’incombere del destino (è da sottolineare pure l’importanza data agli orologi, ripetutamente inquadrati a simboleggiare lo scorrere del tempo), il distacco da un approccio difensivo dell’etica criminale.

Non v’è infatti esaltazione della figura del gangster, anzi troviamo qui un rispetto verso chi ha il coraggio di cambiare vita (e l’occhio dello spettatore attento avrà notato comparire in un’inquadratura la locandina di All’ovest niente di nuovo, film-manifesto di un cinema anti-militarista). Di fatto La donna della retata è un film sull’innocenza perduta (“Non posso restare un ragazzo per sempre” dice il giovane pugile) e ritrovata, che si fa strada negli animi delle sfaccettate personalità dei protagonisti, evidenziate dalla bravura degli interpreti.

E a rimarcare la complessità dell’opera torna un’altra questione stilistica: la profondità di campo. Primo piano e sfondo dialogano continuamente mediante gli sguardi dei personaggi, le numerose carrellate e il sapiente montaggio interno delle inquadrature, che non esitiamo a paragonare – insieme ad alcune impostazioni figurative delle stesse – a certi esiti raggiunti da Orson Welles quasi un decennio più tardi, a supporto della teoria che vede Ozu non solo recettore del cinema americano, ma anche a sua volta portatore di influenze nello sviluppo della storia del cinema tout-court.