È notte nel mare di Tahiti, su una barca un rappresentante dello stato francese si mette alla ricerca di un sottomarino che riveli la fondatezza dei suoi sospetti. E per tutto il film seguiamo questo corpo spaesato aggirarsi per l'isola. Alla ricerca di cosa? Di una rassicurazione del peso del proprio ruolo istituzionale, di uno scopo in quanto funzionario e in quanto essere umano, di un fondamento. Presentato in concorso a Cannes e successivamente in anteprima nazionale al Torino Film Festival nella sezione Nuovimondi,

Pacifiction di Albert Serra sta godendo in questi mesi di un trionfo critico senza pari nella carriera dell'autore catalano, come dimostra la vetta nella top dell'anno della redazione dei Cahiers du Cinéma. Molto dell'apprezzamento critico ricevuto non deriva solo dalla capacità di intercettare le paranoie contemporanee riguardo alla minaccia nucleare, ma anche da un innovativo gioco con il godimento spettatoriale, oltre che alla metodologia tipica dell'autore fatta di decostruzione dell'immaginario mitico e di improvvise epifanie.

Il rappresentante di Stato è l'Alto Commissario della Repubblica De Roller, interpretato dalla star Benoît Magimel, e il sospetto su cui indaga è un rumor locale sul riavvio dei test atomici nell'isola da parte del governo francese. Lo si segue quindi ossessivamente nel suo vagare incerto ma compiaciuto tra cerimonie ufficiali di non troppa importanza e visite alla discoteca Paradise Night. Altrettanto incerte appaiono le sue parole, monologhi interiori mascherati da dialoghi, frutto anche di un lavoro d'improvvisazione di Magimel a cui Serra lasciava solo vaghe indicazioni via auricolare. Tipico eroe serriano, De Roller è un soggetto illuminato destinato al fallimento ma che gode dei resti del suo fallimento. Così, intrappolato in un tempo di evaporazione della politica in un limbo d'incertezza sul proprio ruolo (se dominatore o dominato), può solo che godere della propria paranoia.

A differenza del Jean-Pierre Léaud di La morte di Luigi XIV (2016) qui Serra lavora molto di più con l'identificazione spettatoriale con la star legando il corpo attoriale a un labirinto narrativo in cui districarsi, trovare uno scopo. Anche il piacere spettatoriale si rivela infondato o, meglio, si rivela proprio come piacere dell'infondato, gioco con le proprie paure, ricerca di rassicurazioni dalle proprie paranoie in immagini che però non chiedono niente allo spettatore. La paranoia infatti si dà solo come atmosfera e non come evento narrativo. La narrazione si svolge inoltre attraverso un gioco con i generi, suggerendo qua e là sviluppi spionistici o bellici solo per connettersi al desiderio spettatoriale di maggior paranoia o di maggior catastrofismo. Quel che ne risulta è piuttosto un thriller metafisico à la Antonioni in cui è proprio l'incertezza ontologica ciò che genera piacere.

Tahiti appare come un'immagine da cartolina, paradiso perduto e artificiale (come suggerisce il gioco di parole del titolo, Pacific-fiction). Esplorata nel suo microcosmo notturno l'isola è speculare al bosco di Libertè (2019), abitati entrambi da zombie assuefatti dal proprio godimento, nell'ennesimo scontro tra pulsioni illuministiche e romantiche nella filmografia di Serra. Eppure, al di là della rappresentazione dell'isola e dell'impotenza dei suoi abitanti, qualcosa d'ingovernabile resiste ancora.

Nella più memorabile scena del film, onde gigantesche si scontrano contro audaci surfisti e barche finché non è lo stesso De Roller su una moto d'acqua a dirigersi contro le onde. La scena potrebbe apparire insignificante, eppure il piacere scaturito dalla qualità documentaristica impareggiabile di quell'evento infondato riassume la ricerca di Serra per un cinema puro capace di riscoprire l'autonomia di ogni evento.