Il documentario di Paolo Fiore Angelini si inscrive, fin dal titolo, nella crescente produzione culturale che vede nell’omicidio di Pasolini, avvenuto nella notte del 2 novembre 1975 a Ostia, un delitto politico. Tuttavia, Angelini è anche interessato a ricostruire il movente, o i moventi, dell’omicidio. In questa ricerca e nelle sue modalità formali da indagine poliziesca risiede il contributo originale di Pasolini. Cronologia di un delitto politico.

La ricerca negli archivi e la conduzione delle interviste, su sfondo nero con la luce ad illuminare i volti dei testimoni, quindi, non si limitano alle dinamiche, pur fondamentali, dell’omicidio, dei depistaggi e delle sentenze, ma abbracciano anche la vita e la militanza culturale e politica di Pasolini. Quello che emerge alla fine dell’inchiesta è il clima di odio nei confronti del poeta, fomentato dalla Destra ma anche dalle stesse istituzioni democratiche, sia per il suo stile di vita sia per le sue pressanti richieste di un vero e proprio processo alla classe politica e alla società italiana del dopoguerra e del boom economico.

Pasolini. Cronologia di un delitto politico è anche un modo per celebrare questo processo invocato dallo scrittore e regista, sia attraverso il famoso articolo “Che cos’è questo golpe? Io so” pubblicato sul Corriere della Sera nel 1974, sia attraverso il romanzo Petrolio, interrotto dalla sua morte. Le testimonianze e i materiali raccolti da Angelini parlano di una classe politica e di una società italiana indifferente, quando non collusa con la Destra fascista, verso la persecuzione giudiziaria, mediatica e anche fisica a cui Pasolini fu sottoposto fin dal 1949: un processo per oscenità in luogo pubblico, che gli provocherà prima una condanna e, successivamente, un’assoluzione in appello quando però Pasolini era già stato sospeso dall’insegnamento ed espulso dal PCI.

I procedimenti giudiziari si susseguono negli anni, fino ad arrivare a quelli postumi per Salò come pure le aggressioni fisiche alle presentazioni dei suoi film e l’attenzione mediatica morbosa che ne condanna i comportamenti fino al paradosso di incolparlo del suo stesso omicidio. I telegiornali dell’epoca, ma anche giornalisti attenti come Enzo Biagi, sono unanimi nel ribaltare il ruolo di vittima in quello di accusato, che, in fondo in fondo, se l’è cercata: “si ritrova ucciso,” commenta Biagi, “da un personaggio che è uno dei suoi tristi eroi”.

Non c’è fine al bigottismo dell’Italia degli anni '50 e '60 e l’evoluzione del costume della borghesia italiana non arriva a comprendere l’accettazione dell’omosessualità, per di più quando affermata da un intellettuale a bordo di auto di lusso che esalta le virtù, morali ma anche sessuali, dei poveri. Lo dice chiaramente Alberto Moravia: per capire la morte di Pasolini, l’Italia deve fare i conti con l’omosessualità, smettendo di stigmatizzarla. Non c’è nemmeno fine ai depistaggi e di questo pericolo Angelini è consapevole quando intervista il responsabile dell’inchiesta, Antonio Cornacchia, che sostiene ancora oggi che Pasolini non era né omosessuale né odiato dalla Destra.

Perché, come afferma Furio Colombo, che in quanto testimone diretto della scena del crimine apre e chiude il documentario, le narrazioni, gli orari, le persone della morte di Pasolini sono continuamente cambiate? Perché la Procura ha sentito il bisogno di appellarsi contro la sentenza di primo grado che individuava un concorso di colpa di ignoti successivamente cancellato? Perché gli abitanti dell’Idroscalo di Ostia non sono stati ascoltati e verbalizzati?

Significativamente, le ultime sequenze del documentario ci riportano sul luogo dell’omicidio per farci carico delle pesanti conseguenze di un delitto, per citare ancora Furio Colombo, di cui "sia l’uomo autorevole sia l’uomo della strada” non hanno voluto occuparsi.